Fare vino nel deserto è possibile, ma se si utilizzano i vitigni autoctoni tutto ha un altro sapore. Un’ultima straordinaria esperienza in questo senso viene da Israele. Il deserto del Negev, splendido contesto naturalistico e meta di turismo da tutto il mondo, dopo secoli torna a ospitare due tipologie di vitigno molto antiche. Merito di un progetto di recupero condotto dalle Università di Haifa e di Tel Aviv, in collaborazione coi maggiori enti di archeologia israeliani.
Lo scorso 13 settembre, all’interno del parco nazionale di Avdat, attualmente patrimonio dell’Unesco, gli esperti hanno potuto assistere al reimpianto delle uve Sariki (rossa) e Beer (bianca), originate dai semi provenienti dai ritrovamenti durante gli scavi archeologici condotti nel 2017 proprio ad Avdat, rinomato centro di produzione di vino tra il quarto e il settimo secolo dopo Cristo. Una notorietà tale da far sì che i vini di queste aree, governate dai bizantini, fossero apprezzati anche in Inghilterra.
I reimpianti vitati sono stati realizzati lungo il cosiddetto “sentiero dei torchi”, nei pressi di cinque torchi scoperti nel sito archeologico. Gli studiosi, come ha reso noto l’ufficio del turismo nazionale, hanno scelto di dare al vigneto una forma che prende a modello proprio gli impianti tradizionali israeliani di un ampio periodo storico come quello della dottrina della Mishnah e del Talmud, compreso tra il primo e il settimo secolo dopo Cristo. Le piante di vite cresceranno in un contesto molto arido, arrampicandosi su cumuli di pietre o appoggiandosi ad altre piante. La scelta è stata fatta dopo anni di studi, realizzati in collaborazione con agronomi e archeologi israeliani.
Le due varietà Sariki e Beer potranno anche integrarsi con altri vitigni già coltivati dai produttori locali (come Chardonnay, Sauvignon Blanc, Merlot, Malbec, Petit Verdot). Il deserto del Negev, alla luce della crisi climatica, rappresenta attualmente una sorta di laboratorio per testare la tenuta delle uve ai climi estremi. L’importanza di questo progetto, che coinvolge appunto i vitigni autoctoni e più antichi, sta proprio nell’offrire informazioni preziose sulla capacità di adattamento delle piante di vite. Bisognerà attendere i risultati, per capire se sarà possibile riportare alla luce l’antico vino dell’epoca bizantina.
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