La vita deve continuare. È quello che ricordano le due vignaiole libanesi, Claudine e Michelle, mentre i missili rimbalzano su un Libano già martoriato. La vita continua, nonostante i rumori della guerra, le uve vengono raccolte e si lavora la terra per la prossima vendemmia. L’attuale conflitto tra Israele e Hezbollah ha riportato il paese nel caos, con oltre duemila vittime – di cui 127 bambini – in due settimane e una popolazione in fuga, soprattutto dal sud verso il nord. È qui, a Dimane, un piccolo villaggio a nord-est di Beirut, che le due donne, amiche e partner in affari, stanno portando avanti l’azienda vinicola e il loro progetto, Heya Wines, “lei” tradotto dall’arabo. Il loro obiettivo è quello di produrre vino naturale e garantire pari diritti e riconoscimento alle donne, tradizionalmente invisibili nel settore agricolo.
Da mesi, tutti i media internazionali raccontano il dramma che il Medio Oriente sta vivendo. I raid israeliani non risparmiano nessuna parte del Paese e, mentre la guerra devasta le città, la produzione agricola e vinicola è in ginocchio (ne avevamo già parlato qui). Claudine Lteif racconta in un’intervista a Bon Appétit come, nonostante tutto, il lavoro nelle vigne continui: «Non abbiamo raccolto tutta la nostra uva; i lavoratori hanno paura di lavorare la terra». Anche Michelle conferma la situazione drammatica, aggiungendo che il lavoro in cantina è diventato quasi una terapia: «Lavorare in cantina ci mantiene sani di mente. Ci tiene occupati». Nonostante le difficoltà, le due imprenditrici non si fermano, ben consapevoli del significato profondo del loro progetto. Heya Wines, infatti, nasce dall’osservazione di una triste realtà: le donne, che costituiscono la maggior parte dei lavoratori nei vigneti libanesi, ricevono meno della metà della paga degli uomini, per lo stesso duro lavoro. È qui che Lteif e Chami decidono di agire. Fondano una cantina vinicola interamente gestita da donne, che non solo vuole produrre vini naturali da vitigni autoctoni della valle della Bekaa, ma si impegna a garantire equità salariale e migliori condizioni di lavoro alle donne del settore.
Nei vigneti del Libano settentrionale molte lavoratrici – solo addette a raccogliere l’uva in vigna – sono donne siriane, spesso rifugiate, che ogni giorno affrontano lunghe ore di lavoro e misere paghe: «Le donne che lavorano nei vigneti si svegliano alle 4:30 del mattino, fanno il bucato, preparano il cibo per la famiglia e poi passano ore a raccogliere uva. Tornano a casa, e devono ancora lavorare. Non ricevono alcun riconoscimento, nessun apprezzamento» raccontano le due fondatrici. «Per noi era chiaro: dovevamo pagarle quanto gli uomini e creare un ambiente dove venissero apprezzate per il loro lavoro».
Ma quali sono le sfide che una donna del vino affronta in Libano? Alla giornalista di Bon Appétit le due riferiscono un episodio sconvolgente: «Due giorni fa è venuto un contadino dalla valle della Bekaa. Ci stava osservando ed era così scioccato che ha detto: “Non riesco a credere che ci siano delle donne che lavorano qui. Nella nostra zona, non vedrai mai una donna fare il tipo di lavoro che fai tu in una cantina vinicola. Nei campi, va bene, ma in una cantina vinicola, mai“. Era così stupito che ci sporcassimo davvero le mani».
Lteif e Chami utilizzano varietà di uve autoctone come il Merwah, combinando antiche tecniche di vinificazione come la macerazione carbonica e l’utilizzo di anfore di argilla. Il tutto con un intervento minimo e basse aggiunte di zolfo, per creare vini che riflettono il terroir della valle della Bekaa. I loro vini, dai nomi simbolici come farha (felicità) e kanz (tesoro), sono distribuiti negli Stati Uniti e in Canada e celebrano la resilienza e la forza delle donne. Anche le loro etichette rappresentano le lavoratrici che ogni giorno sfidano il caldo e la fatica per raccogliere l’uva. «Sono fotografie delle donne con cui lavoriamo sul campo. Vogliamo che il nostro prodotto sia il più naturale e organico possibile – senza artifici, senza finti ritocchi» spiegano le fondatrici al magazine statunitense.
Portare avanti un’impresa vinicola in Libano non è mai stato semplice, ma oggi è ancora più arduo. «Non abbiamo elettricità 24 ore al giorno, a volte dobbiamo aspettare ore prima di poter lavorare» spiegano Lteif e Chami. Le difficoltà non si fermano qui: «Le banche sono un altro grande problema. Ritirare soldi è quasi impossibile e dobbiamo affidarci ai risparmi personali o alle vendite per andare avanti». E poi c’è il carburante, anch’esso razionato. Nonostante questo, le due imprenditrici continuano a credere nel loro progetto, che va oltre il vino: «Il nostro obiettivo è dare potere alle donne e dimostrare che il settore vinicolo non è solo per uomini».
«Vivere in Libano significa vivere con la mano sul cuore. Non sappiamo cosa ci riserverà il futuro, ma sappiamo che dobbiamo continuare a lottare per ciò in cui crediamo» concludono Lteif e Chami su Bon Appétit. Anche in tempi duri si può trovare il modo di portare avanti una battaglia diversa, quella per la dignità, l’equità e per la vita.
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