Il mondo cambia e anche le mecche del vino mondiale vanno incontro a delle metamorfosi: magari non repentine come quelle delle zone emergenti, ma comunque necessarie per far fronte all’evoluzione del gusto, dei mercati e del clima. Il termine “icona” evoca qualcosa di immobile, sacro, “destinato alla venerazione”. E, invece, i cosiddetti vini “iconici” sono quanto di più lontano ci sia dalla fossilizzazione in schemi prestabiliti. Lo sanno bene i francesi che, pur attenendosi alle classificazioni dei vigneti o delle aziende che hanno uno o due secoli, sembrano sempre pronti a ripensare metodi e processi per migliorarsi. A differenza dei nostri, i loro luoghi clou del vino sono documentati da tempo immemore, ma sanno evolvere continuamente per conservare il loro prestigio nella contemporaneità. La maestria dei produttori transalpini sta anche in questo: custodire e coltivare un mito senza mai adagiarsi sugli allori, vedere le rivoluzioni prima che arrivino e prepararsi per tempo, cercando, però, di non snaturarsi.
Non che in questo work in progress continuo non si commettano mai errori: di abbagli ne hanno presi anche i vigneron della terra promessa del vino mondiale, la Borgogna. Il demone che fa tremare i collezionisti si chiama premox (abbreviazione di premature oxidation): un fenomeno diffuso tra i bianchi della Cote de Beaune che ha portato alcune bottiglie prodotte negli ultimi trent’anni a evolvere molto più rapidamente del previsto, arrivando già fiacche al traguardo del decennio di vita. Qualcuno potrebbe pensare che ciò sia legato al riscaldamento globale, ma la verità è che nemmeno le annate fredde ne sono uscite indenni. Gli addetti ai lavori si spaccano sulle ragioni del fenomeno, ma, alla fine, i maggiori indiziati sembrano essere tappi cattivi, quantità di solforosa insufficienti, l’abuso del batonnage – ovvero il rimescolamento delle fecce in sospensione nella botte – e l’uso di legni sbagliati. Pratiche spesso legate all’urgenza di soddisfare un mercato in costante accelerazione che, a partire dalla fine degli anni ‘90, ha cominciato a premiare vini estremamente generosi già al debutto.
I problemi, però, non riguardano solo l’evoluzione del vino: assaggiando alla cieca bianchi giovani della zona, ci si rende spesso conto che alcune bottiglie – soprattutto di produttori “minori” – assomigliano un po’ troppo a quelle di altre zone del Mondo. Meursault è il village dove lo stile di vinificazione votato all’ingrassamento è stato più esasperato: in alcuni casi i vini sono passati dalla semplice pienezza a un’opulenza abbastanza anomala. Oggi si nota un ribaltamento stilistico: esemplare è il caso di Nicholas Mefre di Domaine Michelot, protagonista di una masterclass durante la degustazione di Sarzi Amadè, azienda di riferimento per l’importazione di vini esteri, svoltasi qualche mese fa a Roma .
Mefre è uno dei tanti viticoltori giovani che hanno preso le distanze da quello stile: «Dagli anni ‘60 ai 2000 la percentuale di legno nuovo impiegato nella vinificazione è aumentata costantemente: mio padre è arrivato a ricomprare fino al 60% delle barrique ogni anno», racconta lui. Oltre a intraprendere un percorso di conversione al biologico, Nicholas ha ridotto la percentuale di rovere nuovo al 15%, ha limitato al minimo il batonnage e ha cominciato a usare anche contenitori diversi come le uova di ceramica per la vinificazione. La differenza è molto evidente nel calice: i vini brillano per vitalità, equilibrio e attenzione al dettaglio. Sono godibili da subito, ma è improbabile che vadano incontro a un declino prematuro.
Nelle zone di punta dell’altro territorio chiave del vino transalpino, Bordeaux, convivono due mondi quasi opposti: da un lato chateau blasonati che godono di posizioni inattaccabili e che, nonostante tutto, provano a ripensare parzialmente il proprio approccio, per esempio tentando la via della biodinamica per recuperare il ritardo accumulato sul fronte della sostenibilità in vigna. Dall’altro, aziende meno rinomate che soffrono molto di più la contrazione del mercato e si vedono costrette a reinventarsi. È curioso, per esempio, il caso di Palais Cardinal, chateau classificato grand cru classè di Saint Emilion, ma relativamente poco conosciuto, che ha affiancato al second vin altre etichette da singoli vitigni vinificati in anfore italiane di Tava da 750 litri. Lo stravolgimento sensoriale è totale: «Alla cieca, non penseresti nemmeno a Bordeaux!», sottolinea il referente della cantina al banco d’assaggio, suggerendo che l’obiettivo è proprio rifuggire dall’omologazione diffusa che ha portato alla noia – e quindi alla perdita di appeal – e riconquistare i disamorati (argomento di cui abbiamo parlato anche sul mensile Gambero Rosso 387 dello scorso aprile).
C’è, poi, una regione francese dove le vigne più importanti rimangono sempre le stesse, ma i vini che se ne ricavano hanno caratteristiche molto diverse rispetto al passato. «Fino a una trentina d’anni fa, la maggioranza dei vini in Alsazia aveva un residuo zuccherino significativo – dice Olivier Humbrecht, master of wine ed erede di una celebre dinastia di produttori – oggi fare un buon vino moelleux (ovvero abboccato) è diventato molto difficile, perché le temperature medie nelle nostre zone aumentano di un grado e mezzo ogni dieci anni e si rischia di non avere abbastanza acidità se si vendemmia tardivamente». La 2015 del Pinot Gris Rangen de Thann in degustazione è l’ultima annata prodotta in questo stile: nei millesimi successivi Olivier è riuscito a produrre solo Pinot Gris secco. Anche il Gewurztraminer dal Grand Cru Hengst sta seguendo la stessa traiettoria: abboccato lo è ancora, ma il residuo è sempre più basso, e non perché Humbrecht senta l’esigenza di cambiare stile per ragioni commerciali, ma perché gli è capitato di dover buttare partite intere di uva da raccolta posticipata in quanto condizioni climatiche anomale avevano scombussolato tutti i parametri.
L’evoluzione dei fine wines è evidente anche nella Napa Valley, cuore pulsante della viticoltura californiana, dove i vini di alta fascia sono molto più eleganti e facili da bere – più europei?! – rispetto a una decina d’anni fa: il know-how portato da famiglie da altre parti del mondo ha dato un contributo fondamentale. Al di là dei tanti francesi che hanno investito in zona, meritano una menzione anche i “nostri” Antinori, che da tempo possiedono Antica e di recente hanno rilevato Stag’s Leap. In ogni caso, il vino che ha precorso i tempi è Opus One, nato nel 1979 da una joint venture tra Robert Mondavi e i baroni Rothschild di Chateau Mouton. «Opus One ha da sempre uno stile molto europeo», spiega Alessandro Sarzi Amadè.
Ma sembra che l’enfasi sull’equilibrio sia stata ulteriormente rafforzata negli ultimi millesimi grazie anche alla transizione verso un approccio più minimalista alla vinificazione che passa per la selezione di lieviti autoctoni in azienda e per raccolte molto anticipate rispetto alla media della regione. Di quattro annate assaggiate in verticale, la 2012 è l’unica che rivela uno stile vagamente più possente e maturo; le altre sfoggiano integrità, profondità e compostezza da far impallidire tanti blasoni europei con ambizioni analoghe. Sono quanto di più lontano possa esistere dal cliché del vino americano massiccio e pacchiano. Il termine “Nuovo Mondo” fa pensare a qualcosa che è arrivato dopo, ma, davanti a vini così, sembra quasi che siano alcune zone del vecchio continente ad essere rimaste un po’ indietro e debbano recuperare il tempo perso!
<<<< Questo articolo è stato pubblicato su Trebicchieri, il settimanale economico di Gambero Rosso.
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