Il primo a fornire, nel suo libro della cucina del XIV secolo, una ricetta di lasagne che prevede strati di pasta a strati di formaggio, è stato nell’800 Francesco Zambrini.
Poco si sa sull’origine della lasagna come la conosciamo noi, la cui famanasce all’inizio del 900.
Oggi ogni famiglia ha la propria ricetta e questo tipo di preparazione si è diffusa in tutta Italia,  declinando le sue caratteristiche in modo diverso a seconda delle regioni.
Le lasagne possono avere tipi di sfoglia differenti  e possono essere arricchite con accostamenti originali e nuovi. Sono un primo piatto versatile e non per forza pesante e grasso. Si possono infatti preparare anche in versione light o in versione estiva, e possono essere mangiate caldissime o anche fredde. Tutto dipende da come le si condisce!
Il 25 febbraio alla Città del gusto di Napoli, un corso per saperne di più su questa vera e propria gioia del palato, cult intramontabile del periodo carnevalesco.
 
per acquistare clicca qui
Info e Prenotazioni
Città del gusto Napoli
Interporto Campano di Nola
081 19808900/902
mail [email protected]

Una volta l’anno è lecito impazzire. Sicuri di questa concessione ereditata dal passato, ci addentriamo alla scoperta dei dolci di Carnevale italiani e del mondo. Abbiamo detto dolci, perché se un peccato di gola ci deve essere è bene che sia generosamente farcito di creme, spolverato di zucchero e, soprattutto, fritto. Chiacchiere, castagnole, zeppole… sono tante le ricette della nostra tradizione per rendere omaggio al Carnevale, festa dell’allegria e degli eccessi gastronomici per eccellenza.

ITALIA
Dal nord al sud, ogni regione ha le sue specialità. Spesso però si tratta di ricette simili, ma indicate con un nome diverso, come nel caso delle frappe (Marche, Lazio), chiacchiere (Sicilia, Campania, Umbria), bugie (Liguria, Piemonte), cenci (Toscana), meraviglias (Sardegna) o fiocchetti (Romagna) chi dir si voglia: impasto di farina, burro, vino o liquori, steso sottilmente, fritto e spolverato da zucchero a velo. Ricetta simile ma con l’aggiunta di lievito di birra, frutta secca e candita per le storiche friole veneziane che dalle cucine del popolo arrivarono a quelle del Doge e oggi deliziano i tanti turisti che affollano la Serenissima per il Carnevale. A Milano si preparano i tortelli alla milanese, cugini delle più diffuse castagnole. Nelle Marche si passa dagli scroccafusi del maceratese colorati con l’alchermes, ai ravioli fritti del piceno: una sfoglia di vin cotto, acqua e farina farcita con crema pasticcera o di castagne oppure con magro di carne e cannella. Abruzzo, Molise e Umbria condividono la laboriosa cicerchiata, una piramide di palline di pasta frolla, fritte, rotolate nel miele e guarnite con zuccherini. In Toscana il Carnevale è una festa molto sentita e sono tante le ricette per l’occasione, tra cui i bomboloni fritti ripieni di crema o cioccolato e l’originale berlingozzo, un dolce simile al ciambellone che dal Quattrocento in poi si consuma in occasione del giovedì grasso.

ESTERO
Dall’Italia all’estero, paese che vai usanza che trovi. La feijoada è il piatto tipico di Rio de Janeiro per la settimana grassa: una zuppa con fagioli neri, lardo e salumi per rifocillarsi dai festeggiamenti (è praticamente onnipresente anche negli altri periodi dell’anno). Sempre brasiliani, ma con origini portoghesi, sono i papos de anjo, dolcetti da forno ottenuti dalle uova montate farcite con uno sciroppo di zucchero e vaniglia. Aplomb britannico per il simpatico pancake day del Martedì Grasso, durante il quale è tradizione che le signore si sfidino in una competizione alquanto bizzarra: correre fino in Chiesa con una padella in mano dentro cui si trova un pancake in cottura, vince chi lo gira più volte senza farlo cadere. Nell’Europa del Nord, a Carnevale di mangia la selma, un dolce che assume la forma di una pagnotta di grano riempita con un impasto di latte e di mandorle e ricoperta di panna montata. Simile il goloso berliner tedesco, un krapfen farcito di marmellata e fritto. Il nostro giro si conclude oltre oceano, a New Orleans, con l’arcobaleno della king cake: un anello di pane intrecciato e ricoperto da una glassa con colori luminosi, che vanno dal viola, al verde e all’oro.

a cura di Laura Di Pietrantonio

ione definitiva: i giochi agonali, i cortei in maschera, i carri allegorici, la festa dei moccoletti, e soprattutto la celebre corsa di cavalli berberi, si tenevano tutti nella zona delimitata da piazza Venezia, piazza del Popolo e piazza Navona.

 

Il Carnevale romano, celebrato anche in opere di letterati del calibro di Goethe, Stendhal, Dickens e Dumas, venne tuttavia sospeso con l'arrivo dei Savoia a Roma: è solo negli ultimi anni che la festa è stata riabilitata e aspetta soltanto di essere riscoperta. Tra gli eventi da non perdere vi suggeriamo da stasera lo spettacolo nazionale di arte equestre a piazza del Popolo, la grande sfilata rinascimentale che si terrà sabato 18, e per chiudere in bellezza martedì grasso la festa dei moccoletti e i fuochi d'artificio dalla terrazza del Pincio.

 

E nella capitale, dici Carnevale e la mente va subito a frappe e castagnole. Queste ultime, come le chiacchere, conoscono tante varianti quante sono le regioni e le province italiane. A Roma, nei banchi dei fornai come nelle pasticcerie, ne esistono in due varianti: quelle morbide e "piene", molto simili a quelle che si trovano in tutta Italia, e quelle ripiene, o alla romana, con un impasto simile a un bignè, fritto e farcito di golosissima crema pasticcera.

 

> Castagnole alla romana

 

di Rita Quaglia

16/02/2012

 

foto di Federica Agamennoni

'Angelo domenica scorsa, si attende la degna chiusura martedì grasso con la Vogata del Silenzio, il corteo di gondole silenziose e il sacrificio del toro, grandiosa macchina scenica allegoria del Carnevale.

 

E se c'è una cosa che è indissolubilmente legata a Venezia e alla sua festa più importante sono le fritole, simbolo dell'allegro "bevar e ciacolar veneziano". Si tratta di un impasto molto semplice, arricchito con pinoli e uva passa (secondo una ricetta del 1858, con uva di Smirne), aromatizzato alla grappa o anice, e poi fritto. Di queste lagunari frittelle si fa un gran parlare fin dal XVI secolo in didascalie, raccolte e stampe: compaiono anche nel Campiello di Goldoni, e nel corso del Settecento la corporazione dei fritoler divenne molto nota e organizzata, tanto che su ogni bottega era innalzata una sorta di insegna che celebrava il proprio artigiano. In una stampa ottocentesca compare anche il nome di uno dei fritoler più famosi, Zamaria: fuori dal suo "laboratorio", munito di grembiule, tiene in mano un vasetto bucherellato con cui cosparge di zucchero le sue fritole. Impossibile resistergli: ora come in passato, una tira l'altra.

> Fritole veneziane

 

di Rita Quaglia
15/02/2012

 

foto di Emil Cenzato

Mettere a bagno l'uva passa in acqua tiepida. Disporre la farina a fontana e lavorare al centro l'uovo, lo zucchero semolato e un pizzico di sale. Sciogliere il lievito nel latte tiepido e unirlo all'impasto, amalgamando a poco a poco tutta la farina. Aggiungere la grappa e lasciare lievitare coperto da un canovaccio in un luogo tiepido fino a quando l'impasto non raddoppia il suo volume. Unire l'uva passa ben scolata e i pinoli mescolando delicatamente con una spatola. Con l'ausilio di due cucchiai, fare delle palline e friggere le fritole in olio abbondante ben caldo. Servire cosparse di zucchero a velo.

 

foto di www.ricardocuisine.com

edersi senza troppi patemi d'animo la giusta dose di carboidrati semplici e lipidi. Tutto sta nell'abbandonare i sentimenti di amore e odio nei confronti dei grassi e farseli amici una volta per tutte.

 

Per una frittura che sia più sana e gustosa possibile, bisogna saper scegliere il grasso giusto e come trattarlo. La prima caratteristica da prendere in considerazione è il punto di fumo, ovvero la temperatura oltre la quale un grasso subisce delle modificazioni che portano alla formazione dell'acroleina, una sostanza dannosa per il fegato e per lo stomaco. Riuscire a non superare le temperature indicate può essere difficile soprattutto perché nelle padelle normali il calore può non essere distribuito in modo uniforme. Ci si può aiutare con un termometro da cucina che supporti le alte temperature, con cui si può anche verificare la cottura del cuore del nostro dolce.

 

Prendendo in considerazione gli oli e i grassi più usati nelle cucine domestiche, come l'olio extravergine d'oliva, il burro, l'olio di arachidi e lo strutto, scopriamo che quest'ultimo raggiunge il punto di fumo a una temperatura che varia dai 180 ai 210°C. Lo strutto quindi si presta bene alla cosiddetta frittura profonda che consiste nell'immersione totale del cibo da cuocere in un grasso che abbia raggiunto i 170-180°C. Al contrario di quanto si possa pensare, immergere completamente l'alimento nel grasso molto caldo, fa sì che risulti molto croccante senza assorbire troppo. Quasi a pari merito troviamo l'olio extravergine d'oliva con un punto di fumo leggermente più basso (160-200). Le caratteristiche organolettiche non possono certo passare in secondo piano quando si tratta di dolci e l'olio extravergine d'oliva potrebbe essere un po' troppo invadente. In ogni caso sia strutto che olio extravergine danno risultati più che soddisfacenti, così come l'olio di arachidi (facendo attenzione a non superare i 150°C). Per quanto riguarda il burro, invece, lasciamolo negli impasti che per friggere non va affatto bene: contiene una quantità di acqua troppo elevata che altera le molecole già a 110°C. Insomma, una frittura buona è possibile e i dolci fritti a Carnevale sono un diritto: abusatene senza alcun senso di colpa!

 

14/02/2012

Caterina Pamphili

=it&Itemid=1" target="_blank">isole, facciamo tappa in Trentino Alto Adige, per la precisione in Val di Fassa, dove è in pieno svolgimento il carnevale ladino. La manifestazione, cominciata il 17 gennaio e che si concluderà martedì grasso, coinvolge attivamente tutti i comuni della valle attraverso le mascherèdes, spettacoli burleschi in lingua ladina, e le facerès, maschere lignee intagliate con superba maestria dagli scultori locali. Un Carnevale all'insegna di rappresentazioni teatrali, gare di slitta (lese da corni in ladino), carri allegorici, balli in maschera e sagre.

 

Non potevamo allora non parlare di uno dei dolci simbolo di queste valli in festa: si tratta delle furtaies, come vengono chiamate in Trentino, o strauben in Südtirol. Questa sorta di frittella, dalla caratteristica forma a spirale, viene normalmente servita calda, cosparsa di zucchero a velo e accompagnata da confettura di mirtilli rossi o altri frutti di bosco. È comune anche in Tirolo e nella Carinzia austriaci, e in alcune zone della Baviera. Il nome strauben deriva dal tedesco straub che vuol dire, appunto, tortuoso, arricciato. Per andare oltre il solito, amatissimo krapfen.

> Furtaies o strauben

 

di Rita Quaglia
13/02/2012

 

foto di www.fassa.com

In un tegamino far intiepidire il latte, in seguito togliere dal fuoco, mettere un pizzico di sale, e aggiungere a poco a poco tutta la farina setacciata. Unire al composto il burro fuso e la grappa. Separare gli albumi dai tuorli e aggiungere questi ultimi all'impasto. Unire lo zucchero agli albumi, e montare a neve ben ferma. Con l'ausilio di una spatola, incorporare delicatamente i bianchi d'uovo montati al composto di farina. Preparare una padella con olio ben caldo. Nel frattempo far colare da un imbuto direttamente nell'olio un filo d'impasto e continuare disegnando all'interno della padella una spirale ben stretta. A metà cottura, con l'ausilio di due schiumarole, girare lo strauben e continuare a friggere fino a quando il dolce non avrà assunto un bel colore dorato. Scolare lo strauben dell'olio in eccesso e adagiare su carta assorbente. Proseguire fino a esaurimento dell'impasto (ne è necessario circa 1 mestolo per ogni frittella). Servire con zucchero a velo e confettura di mirtilli rossi.

 

foto di suedtirol-wellness.eu

del carrasecare sardo (tradizionale Carnevale dell'isola, che affonda le sue radici in antichi culti legati a Dioniso, alla fertilità, alla morte e alla rinascita).

 

Parliamo dei pirichittus, piccoli bocconi di pasta ricoperti da una glassa al limone. Sembra che il nome derivi dallo spagnolo periquillo, dolce tuttora caratteristico della tradizione carnevalesca iberica. Sono tante le varianti regionali, quelli del Campidano ad esempio sono più piccoli e morbidi grazie alla presenza nell'impasto di una piccola percentuale di lievito. Altra storia sono invece i pirichittus de bentu, lievemente più grandi, vuoti all'interno e piuttosto friabili. L'etimologia del nome è presto spiegata: pirichittus di vento, proprio in virtù della loro leggerezza. Sono tipici della zona di Ittiri e di Quartu Sant'Elena, dove vengono consumati anche in occasione della festa di San Giovanni.

 

> Pirichittus de bentu

 

di Rita Quaglia
10/02/2012

 

foto di myart-robertomurgia.blogspot.com

Sbattere in una terrina cinque uova e unire lentamente lo strutto e la farina setacciata. Lavorare l'impasto con le mani e aggiungere l'ultimo uovo rimasto. Con le mani sporche di farina, formare delle palline di impasto e metterle su una teglia da forno ben distanziate fra loro (l'impasto tende a crescere in fase di cottura). Infornare a 180° per 10-15 minuti, fino a quando i pirichittus si saranno gonfiati e avranno assunto un bel colore dorato. Nel frattempo preparare la glassa, detta in sardo la cappa. In una pentola molto capiente (bisogna che contenga tutti i pirichittus) mettere lo zucchero, l'acqua e la scorza di limone, e cuocere a fiamma molto bassa. Bisogna fare attenzione a che lo zucchero non cominci a caramellare: deve restare un composto trasparente e viscoso, e preso con la punta delle dita deve fare il caratteristico "filo". A questo punto, versare tutti i pirichittus nella pentola e girare vigorosamente con un mestolo in legno fino a quando tutte le palline non saranno ricoperte di glassa. Versare i pirichittus sulla spianatoia e staccarli uno ad uno.

Unire a poco a poco la fecola setacciata al latte, lavorando in modo da non formare grumi. Filtrare il sangue di maiale e mettere in una pentola a fuoco basso con il latte, lo zucchero, gli aromi e il cioccolato fondente tagliato a pezzetti. Far cuocere fino a quando la crema raggiunge una consistenza piuttosto densa. Aggiungere i canditi e servire in coppette accompagnate dalle chiacchiere.

 

Ricetta di Rita Quaglia

foto presa da www.gennarino.org/forum

Disporre la farina a fontana e lavorarvi al centro le uova con lo zucchero, la sugna e il sale. Amalgamare a poco a poco tutta la farina e lavorare fino a quando l'impasto risulterà liscio e omogeneo. Stendere la pasta fino a uno spessore di 3 mm e ricavare, con l'ausilio di una rondella dentata, delle strisce o triangoli di forme irregolari. Friggere in abbondante olio ben caldo. Disporre le chiacchiere su carta assorbente e cospargere di zucchero a velo.

Ricetta di Rita Quaglia

 

stri suggerimenti per trasgredire a dovere.

 

 

Partiamo da un classico del sud, chiacchiere e sanguinaccio. Le prime, comuni a tutta Italia e conosciute anche con il nome di bugie o frappe, sono strisce di pasta fritte in olio e cosparse di zucchero a velo o miele. L'origine del dolce pare sia latina: il 17 marzo infatti si celebravano le liberalia, feste in onore di Liber Pater e Libera, divinità italiche della fecondità e del vino. Durante la festa, che segnava per i ragazzi di 16 anni il passaggio all'età adulta, le sacerdotesse del dio col capo cinto di edera offrivano ai passanti le frictilia, dolci al miele fritti nel grasso di maiale, molto simili nella tipologia alle odierne chiacchiere.

foto presa da www.gennarino.org/forum


Il sanguinaccio dolce costituisce in molte regioni del sud (specialmente Lucania e Campania) l'accompagnamento classico alle chiacchiere. Si tratta di una crema densa a base di cioccolato fondente e sangue di maiale (che conferisce un retrogusto lievemente acidulo), cotti insieme e addensati con fecola di patate e aromi. Nella tradizione lucana al sanguinaccio si aggiungono anche vino rosso, canditi e uva passa, mentre in Campania, soprattutto a Napoli, è consuetudine bilanciare il sangue di maiale con altrettanto latte. Dal 1992 è in vigore il divieto di vendere in macelleria il sangue di maiale, così che solo nelle comunità rurali, dove la macellazione del maiale è fatta in casa, il sanguinaccio è ancora preparato alla maniera antica.

 

> Chiacchiere napoletane

 

> Sanguinaccio napoletano

 

di Rita Quaglia

08/02/2012

 

> Iscriviti alle newsletter Gambero Rosso

strong>petresciata ad Andria. In questo paese della Puglia centrale (un tempo nel Barese, oggi nella nuova provincia di Barletta-Andria-Trani), dove nel 1894 è nata la storica confetteria “Mucci Giovanni”, venivano lanciati senza risparmio durante la settimana di Carnevale.

 

C'erano le petresciate d'amore, non a colpire ma ad augurare fertilità: il fidanzato andava a casa dell'amata e lanciava in aria a semicerchio fruttini al rosolio (non il liquore ma un ripieno a base di acqua, zucchero ed essenze), cannellini (fili di cannella ricoperti da sottilissimi strati di zucchero) e confetti ricci (prodotti già all'inizio dell'Ottocento), mentre la suocera della futura sposa portava una bomboniera di confetti misti dai colori accesi, tra i quali i tenerelli, confetti ripieni di mandorle pugliesi o di nocciole, ricoperti da un doppio strato di cioccolato e finemente ricoperti da una confettatura colorata, inventati negli anni Trenta proprio da Mucci. Ma c'era anche la petresciata goliardica e violenta, che veniva fatta in strada da gruppi mascherati. In questo caso i confetti erano i diavoloni o cocchele, sferici e grandi come palline da ping pong, usati come proiettili.

Le petresciate sono cose ormai del passato ma non per la crisi economica. Quella amorosa è una tradizione che si sta perdendo e non la fa quasi più nessuno. La petresciata stradaiola è stata proibita: troppo pericolosa per cose e persone.

 

 

 

Però i confetti della tradizione andrese ancora si fanno e si gustano. Li produce appunto Mucci, con l'antica confetteria (nel circuito dei Locali Storici d'Italia) e Museo del confetto nell'originaria sede ad Andria (www.confettimucci.it) e moderno stabilimento a Trani (www.muccigiovanni.it).

 

Oltretutto – caso più unico che raro al mondo – impiegando coloranti naturali. «Una scelta – assicura Mario Mucci - che ci è costata in tutti i sensi, dal punto di vista economico e di tempo. I nostri fruttini, dragée, coriandoli, lenti, tenerelli alla mandorla “Filippo Cea” di Toritto e alla nocciola Piemonte Igp sono frutto di anni di prove e ricerche».

 

Mara Nocilla

01/02/2012

di origine antica celebrano gli arcaici riti propiziatori legati alla fine della stagione invernale e all'arrivo della primavera.

Nella Valle del Gran San Bernardo compaiono le Landzette a cavallo, le maschere tipiche che rievocano l'avvenimento storico dello scollinamento del colle del Gran San Bernardo da parte delle truppe napoleoniche nel maggio del 1800. I costumi si ispirano, appunto, alle divise dell’esercito francese: cappelli napoleonici multicolore, mantelle e divise rifinite a mano con perline, paillettes, coccarde, fiori e specchi; maschere di legno tipiche coprono poi il volto di ogni Landzetta. Nella sfilata tradizionale non mancano, inoltre, la maschera dell’orso, che rappresenta l’avvicinarsi della primavera, le code dei muli, a rappresentare i venti che servono per allontanare le correnti d'aria nefaste, gli specchi, per scacciare gli spiriti maligni, e il colore rosso, a simboleggiare la forza e il vigore per esorcizzare malefici e disgrazie.

Il corteo carnevalesco, che per tutto il periodo che precede la quaresima migra ogni volta in un paese diverso, si sposta ballando e cantando per le vie e le piazze del paese, bussando di porta in porta a raccogliere offerte di cibo e bevande. È proprio questa generosità e questo spirito di condivisione il motore della festa tradizionale. Così cantano le Landzette:

Mèrsì peu sènque vo baillade i mascre, tanto  da mangiare e  tanto buon vino, siamo tutti sazi e questo non ci fa nulla, dal medico resteremo lontani.... Mèrsì a vo se fién, queste belle feste e non perdiamo queste belle tradizioni.....”. 

La merenda offerta alle Landzette accoglie i migliori prodotti della Valle: il Vallée d’Aoste Jambon de Bosses Dop, Motzetta Bio, Fontine Dop Bio e, a ricordare la tradizione che voleva l’unica panificazione dell’anno realizzata in questo periodo, fette di pane nero con Miele e Burro di panna, il tutto abbinato ai grandi vini locali, su tutti lo Chardonnay. Un patrimonio enogastronomico ricchissimo, legato a una cultura contadina "eroica" che, in un territorio sicuramente non confortevole e non meccanizzabile, ha saputo trasformare e valorizzare le materie prime locali, dalle carni al latte, dai formaggi al miele, al vino e alle erbe. Celebri i salumi prodotti a partire da razze bovine autoctone, lasciate libere di pascolare nelle ampie vallate: la Pezzata rossa, la Pezzata nera e la Castana.

Primo protagonista è il Re dei crudi: il Vallée d’Aoste Jambon de Bosses Dop, un prosciutto crudo speziato con timo, ginepro ed erbe di montagna, prodotto unicamente nella piccola comunità di Saint-Rhémy-en-Bosses, a 1600 metri di quota. Grazie a una tecnica di produzione tramandata nei secoli, all’abilità dei suoi curatori e a piccoli antichi segreti, lo Jambon possiede un gusto inimitabile: deciso e aromatico, con una delicata venatura di selvatico. Segue il famoso Lard d’Arnad Dop e la gustosa ma meno conosciuta Motzetta Bio, carne essiccata di bovino proveniente esclusivamente dalla Val d’Ayas.

La Motzetta è nata dall’antica esigenza di conservare a lungo la carne per il fabbisogno invernale della famiglia. Preparata con tagli crudi interi, compatti e poco grassi, viene "strofinata" con erbe aromatiche di montagna, sale, spezie e  aromi naturali. In seguito si procede alla sua breve stagionatura, appendendo le porzioni di carne in luoghi freschi e ben arieggiati, per un tempo che varia da uno a tre mesi, a seconda della dimensione del prodotto.

Tra i formaggi, Fontina Dop Bio, maturata per almeno tre mesi in grotte, durante il quale le forme vengono periodicamente strofinate, girate e salate in superficie, e il Burro di Panna Bio.

I festeggiamenti del Carnevale si protraggono per un periodo che va dal 19 febbraio al 12 marzo secondo un calendario che varia di paese in paese. Tra i prossimi appuntamenti: il 26 febbraio a Gignod, il 3 e 4 marzo ad Etroubles, il 5 marzo a Bionaz, Roisan, Saint-Oyen e Valpelline, il 6 a Saint-Rhemy-en-Bosses e dal 6 all'8 marzo a Doues.

Per maggiori informazioni:

www.regione.vda.it

di Flavia Rendina
23/02/2011

Pestate il chiodo di garofano riducendolo in polvere. Setacciate la farina sulla spianatoia e mettetevi le uova intere, lo zucchero, la cannella, il burro fuso, la polvere di garofano e 50 g d'acqua. Impastate molto bene il tutto per una decina di minuti quindi raccogliete l'impasto a palla, avvolgetelo nella pellicola e fatelo riposare per un'oretta.

Nel frattempo preparate il ripieno. Setacciate la ricotta e raccoglietela in una terrina con lo zucchero, il tuorlo, la scorza d'arancia, la cannella, il chiodo di garofano pestato e mescolate bene.

Dividete la pasta in due o tre pezzi e stendetela ricavando delle strisce non troppo sottili (penultima tacca della macchinetta). Disponetevi sopra dei mucchietti di ripieno a uno distanza di circa 5 cm. Dopo averla inumidita  leggermente tutto intorno al ripieno, ripiegate la pasta premendo bene con le dita fra un mucchietto e l'altro.

Ritagliate i ravioli con la rotella dentata e, via via che sono pronti, adagiateli su un panno. Friggeteli in abbondante olio caldo (170°), due o tre minuti per parte e sgocciolateli quando hanno preso colore.

Passateli su un doppio foglio di carta da cucina e quando sono tiepidi spolverateli di zucchero a velo. 

Fate fondere il burro a fuoco dolcissimo. Setacciate la farina sulla spianatoia, fate la fontana e versatevi il burro, le uova intere, la grappa e lo zucchero.

Sbattete delicatamente gli ingredienti con la forchetta e, quando l’impasto si sarà un po’ rassodato, lavoratelo con le mani impastando energicamente per una decina di minuti, fino a quando sarà liscio ed elastico. Raccoglietelo a palla, avvolgetelo con la pellicola e lasciatelo riposare per un’oretta.

 

Trascorso questo tempo, dopo aver infarinato leggermente la spianatoia, dividete la sfoglia in due o tre pezzi e stendetela, con il mattarello o con la macchina per la pasta, ad uno spessore di due mm (se utilizzate la macchinetta, effettuate l’ultimo passaggio all’ultimo spessore).

 

Con la rotellina dentata ricavatene delle losanghe oppure dei rettangoli che inciderete con due tagli paralleli  oppure, questa è la forma tipica, delle lunghe strisce larghe un paio di cm che potrete annodare morbidamente oppure modellare a forma di fiocco.

Riempite a metà la padella con l’olio e quando è moderatamente caldo (160°) friggete due o tre cenci alla volta lasciandoli dorare due minuti per parte. Scolateli, passateli su un doppio foglio di carta da cucina e, quando saranno tutti pronti, spolverateli abbondantemente di zucchero a velo.

Mescolare la farina con il lievito, unire lo zucchero, la scorza grattugiata del limone, il sale, il latte, il ruhm e le uova intere. Lavorare a mano o nel mixer fino ad ottenere un composto liscio e denso. Amalgamare bene l'impasto, coprirlo e lasciar lievitare in un luogo tiepido per una mezz'oretta.

Sbucciare le mele, privarle del torsolo centrale, affettarle allo spessore di mezzo centimetro e spruzzarle con il succo di limone. Immergere le fette nella pastella e lasciare che ne vengano ben avvolte.
In una padella a bordi alti, portare abbondante olio di arachidi a 175°C. Con una pinza o una forchetta prelevare tre, quattro fette alla volta e lasciarle scivolare nell'olio. Scolarle quando saranno ben dorate e gonfie, asciugarle su abbondante carta da fritti e passarle nello zucchero semolato o a velo.

linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram