
Era il 12 aprile 1981 quando l’astronauta delle NASA John Young portò a termine una delle imprese più celebri della storia: il comando del primo Shuttle lanciato nello spazio. Eppure c’è un altro motivo, meno celebrato, che lo ha reso negli anni una figura indimenticabile: il contrabbando di un sandwich al corned beef, una sorta di pastrami di manzo portato nello spazio durante la missione Gemini 3. Un gesto apparentemente semplice ma inaspettato nel contesto delle missioni nello spazio, dominate da protocolli ferrei anche quando si tratta di cibo. Il simbolo di una ribellione che da poco ha compiuto sessant’anni.
Tra i compiti di Young, assegnato insieme a Gus Grissom alla missione inaugurale di allunaggio del 23 marzo 1965, c’era appunto quello di testare il cibo spaziale. Si trattava di un piatto principale liofilizzato, accompagnato da verdure, una bevanda e un dessert, protetti da un rivestimento laminato a quattro strati. Per consumarne il contenuto, gli astronauti avrebbero dovuto infilare una pistola ad acqua nei sacchetti di plastica e spruzzare liquido all’interno, in modo da reidratare le pietanze. Una missione, questa, mal digerita da Young, già disgustato dai pasti liofilizzati provati durante il lungo addestramento. Da qui l’idea di mettere in atto il suo piccolo piano segreto: portare un sandwich nello spazio.
Pare che prima del lancio il collega Walter Schirra fosse passato da Wolfie’s, un locale nella contea di Brevard, in Florida, che preparava sandwich piuttosto noti dalle parti della base di Cape Canaveral. Al momento del primo pranzo nello spazio, Young estrasse il panino e disse a Grissom: «Vediamo che sapore ha». Al primo morso, briciole di pane di segale cominciarono a fluttuare ovunque in cabina. Grissom, interdetto e allarmato, afferrò il sandwich e se lo infilò nella tasca della tuta per il resto del volo. «Era un’idea… Non proprio brillante», ammise Young alla rivista Life qualche anno più tardi.
Anche alla NASA non la presero bene: la presenza di briciole così piccole in sospensione nella navicella avrebbe potuto causare seri danni agli equipaggiamenti di bordo con il rischio che i frammenti organici rimanessero incastrati in angoli difficili da raggiungere, marcendo e trasformandosi in elementi contaminanti nelle permanenze di lunga durata in orbita. Una minaccia che tuttavia non compromise la buona riuscita delle missione, visto che tutto si risolse solo – si fa per dire – con una nota a margine del prestigioso curriculum da astronauta di Young.
Dalla trovata di Young, però, le cose sono cambiate. Il celebre sandwich si è conquistato un posto nella storia, al punto che oggi è addirittura possibile ammirarne una replica dentro una bacheca al Grissom Memorial Museum di Mitchell, in Indiana. Ma soprattutto ha dato la spinta ad un cambiamento nel modo in cui il cibo spaziale, e la tecnologia alimentare che vi è dietro, erano stati concepiti fino a quel momento.
Oggi, gli astronauti sulla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) possono scegliere menu da diverse parti del mondo e gustare il borsch russo, il ramen giapponese, la pasta italiana o il mac & cheese americano, che convivono tranquillamente sugli scaffali di bordo. Frutta e verdura fresche arrivano con le missioni di rifornimento, mentre esperimenti di coltivazione in microgravità di lattuga, ravanelli, grano e cavoli rossi – alimentati con luce artificiale e cresciuti addirittura in terriccio marziano – stanno ponendo le basi per un’agricoltura sostenibile. Merito di tecnologie di coltivazione che utilizzano l’acqua come principale mezzo di crescita per le piante, come l’idroponica, l’aeroponica e l’acquaponica. Sistemi «che ottimizzano l’uso delle risorse disponibili in situ», spiega a Wired Valentina Sumini, Space architect e research affiliate presso la Mit Space Exploration Initiative.
8 MIT Space Exploration Initiative | La ricercatrice sul Cibo nello spazio Maggie Coblentz che ha progettato il food helmet per mangiare a gravità zero – © Nicola Twilley
Anche la preparazione e la trasformazione del cibo in loco saranno sfide cruciali per le missioni nello Spazio remoto. La necessità di ottimizzare al massimo le risorse disponibili ha portato allo sviluppo di cucine ingegnerizzate come la Esk (acronimo di Engineered space kitchen), nata dalla collaborazione tra il pastificio Rana e Coesia nell’ambito del Nasa Deep Space Food Challenge 2021. Per non parlare delle tecnologie come la stampa 3D per creare cibo personalizzato a partire da polveri nutrienti, e la carne coltivata in laboratorio – di recente consumata sulla ISS – che potrebbe offrire un’alternativa sostenibile e compatta per mete come la Luna e Marte. Chissà cos’altro si potrà mangiare nello spazio del futuro.
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