Lo chef di origini palestinesi-egiziane Omar Anani ha lanciato una serie di pop-up itineranti dove cucina piatti tipici palestinesi. Obiettivo? Promuovere la cucina palestinese, spesso oscurata da una generica “cucina mediorientale”.
«Sono arrivato al punto della mia carriera in cui voglio essere orgoglioso della mia origine palestinese. Voglio essere fiero delle cose che ho sempre nascosto», ha dichiarato Omar Anani a Eater Detroit. Anani è cuoco e proprietario di Saffron De Twah, premiato nel 2019 come “ristorante dell’anno” sempre da Eater, e del food truck halal The Twisted Mitten. Lo chef di origini palestinesi-egiziane ricorda di quando da piccolo si alzava prima dell’alba e si faceva un bagno per «togliere il colore pensando che se fossi stato più bianco mi sarei adattato e la gente non mi avrebbe più preso in giro», racconta a Eater Detroit, o di quando i genitori si opposero all’apertura di un suo ristorante presentandolo come palestinese, e alla fine Anani ha dovuto optare per il “ristorante marocchino” per il quale poi è diventato famoso. «Nel corso della mia carriera ho temuto il modo in cui le mie radici palestinesi-egiziane sarebbero state percepite. Ora non più».
Ora Anani ha lanciato una serie di pop-up itineranti chiamati Shaebi (“la mia gente” in arabo) a Brooklyn, New Orleans, Washington e il 28 febbraio a Ditroit, all’interno del locale polifunzionale Folks, dove vengono proposti piatti tipici palestinesi per presentare una cucina distinta da quella che spesso viene definita, in maniera generica, “mediorientale”. Dall’insalata fatoush, al mousakhan fatayer, al mujadara, la cena a base di piatti palestinesi è anche un pretesto per «combattere le molte narrazioni fuorvianti che circolano sul popolo palestinese. Non si tratta di far cambiare idea su una questione politica né su una questione religiosa. Si tratta di riunire la nostra gente, ovvero tutte le persone che sentono, guardano e credono come noi». Tra l’altro, parte del ricavato dell’evento a Detroit è devoluto ad Anera, un’organizzazione non governativa che fornisce assistenza umanitaria e altri aiuti ai rifugiati in Palestina, Libano e Giordania.
«Condividere la mia cultura è ciò che mi guarisce», ha concluso Anani, per il quale questi pop-up rappresentano solo l’ultimo esempio di anni di impegno nei confronti delle questioni di giustizia sociale, di sensibilizzazione verso il popolo palestinese, anche prima dello scoppio dell’attuale conflitto tra Israele e Hamas – nel 2021 ha organizzato un pop-up a favore di Palestine Children’s Relief Fund, un’associazione statunitense che si occupa di fornire cure mediche gratuite ai bambini palestinesi malati e feriti – e di denuncia rispetto una sorta di “emarginazione” della gastronomia palestinese: a fine 2023 ha accusato pubblicamente Uber Eats per aver spostato sulla piattaforma i ristoranti palestinesi, compreso il suo, dalla categoria “cucina palestinese” a quella “israeliana”. «Questa mossa – scriveva Anani in un post su Instagram – non solo cancella l’identità palestinese, ma contribuisce attivamente alla soppressione della cucina e dell’identità palestinese su scala globale. Questa palese azione anti-palestinese è inaccettabile». La questione (nata per l’esattezza a Toronto, dove molti ristoratori si sono giustamente risentiti dal fatto di vedere i loro locali comparire tra le ricerche di cucina “israeliana”), poi, si è conclusa con l’annuncio di Uber Eats dell’introduzione della categoria “palestinese” sulla propria piattaforma. Ma rimane un dubbio: se i ristoratori di Toronto non avessero protestato?
Se è vero che Uber Eats e Google finalmente hanno riconosciuto la cucina palestinese, è altrettanto vero che c’è ancora molta strada da fare. E molto da monitorare.
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