
È sempre lei la protagonista della cucina italiana, la pasta: secca, fresca, all’uovo o acqua e farina, ripiena, integrale, a timballo, in qualunque variante purché abbinata al suo sugo tradizionale. Perché, si sa, nonostante le variazioni più fantasiose, ogni formato vuole un condimento ben preciso. Per cercare gli accostamenti migliori, ci siamo fatti aiutare da Peppe Guida, chef e patron dell’Antica Osteria di Nonna Rosa a Vico Equense, che ha fatto della pasta il suo ingrediente base per realizzare grandi piatti. Dopo il libro – e il programma andato in onda su Gambero Rosso Channel – Questa terra è la mia terra, lo chef sta preparando ora un’altra pubblicazione in uscita il prossimo dicembre in cui racconta tutte le ricette di casa che ha cucinato e mostrato sui social durante il lockdown. Chi meglio di lui, quindi, per spiegare gli abbinamenti perfetti fra formati di pasta e sughi?
“Da buon campano, è uno dei primi matrimoni felici che mi vengono in mente”. Le candele, infatti, sono tra i più noti formati di pasta napoletani, un tempo venduti sfusi nei negozi di alimentari e che devono il loro nome alla caratteristica forma liscia e cilindrica che ricorda le candele utilizzate nelle processioni religiose. Da sempre si usa spezzarle a mano prima di cuocerle e servirle con il tipico ragù napoletano (‘o rraù).
Un sugo di carne cotto a lungo nel pomodoro e derivato dalla ricetta francese del “daube de boeuf” lo stufato di carne di bue e verdure tipico della cucina provenzale del Settecento. Come nelle migliori tradizioni popolari, però, sono tanti i racconti che ruotano attorno a questa specialità che si fa risalire a molti secoli fa. Fra le storie più note, quella della Compagnia dei Bianchi di giustizia e del signore nemico di tutti, mosso a commozione dal miracolo del sugo rosso, battezzato poi “Raù” in onore del figlio.
Guai a confondere le candele con gli ziti, dalla forma simile ma il diametro leggermente inferiore. Si tratta di un formato lungo, ma che viene sempre utilizzato spezzato, soprattutto per le cotture in forno e per realizzare timballi o frittate di pasta. Il nome deriverebbe dal termine dialettale ziti, che in napoletano indica i fidanzati: secondo la tradizione, infatti, venivano preparati in passato per celebrare i fidanzamenti ufficiali. “Il condimento migliore è senza dubbio la genovese, sugo tipico regionale, succulento e goloso”.
Un ragù bianco di carne e cipolle stufato a lungo fino a diventare un intingolo cremoso e profumato da servire sulla pasta insieme a una generosa spolverata di formaggio grattugiato. Tante le ipotesi nate nel tempo per spiegarne il nome, dalla presenza dei genovesi nelle bettole del porto napoletano durante la dominazione aragonese del Quattrocento al gastronomo napoletano soprannominato “o’ Genovese”. La storia della pasta alla genovese non è del tutto chiara, e la confusione fra ragù alla napoletana e sugo alla genovese non ha aiutato a fare chiarezza. Antenato del piatto sono probabilmente i maccaroni alla napolitana, descritti da Francesco Leonardi nel suo “L’Apicio moderno” del 1790, conditi o con un sugo di carne oppure con uno stufato di manzo a cui poteva essere aggiunto anche il pomodoro.
Classico intramontabile della cucina italiana, piatto apprezzato in tutto il mondo, preparato in maniera diversa a seconda della zona e dei gusti personali, seguendo ricette di famiglia o inventando variazioni nuove. Una di quelle ricette che non passa mai di moda, dal gusto familiare e inconfondibile: “La tradizione impone lo spaghetto, ma devo ammettere che io preferisco un formato un po’ più spesso, come il vermicello”. Una cosa è certa: il sugo deve essere ben fatto, preparato in casa a partire dai pomodori freschi oppure usando una passata – o una polpa o i pelati – di buona qualità.
La storia del pomodoro, ormai, la conosciamo bene: arriva dal Messico, viene inizialmente classificato come non commestibile, inizia poi a essere consumato dapprima nel Sud Italia, diffondendosi sempre di più tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento. A dare il via alla pratica delle conserve, i contadini di Parma, che lasciavano essiccare i pomodori al sole prima di trasformarli in salsa. Una tradizione che in Italia ha dato origine a una rete fittissima di industrie, sviluppatasi dapprima a Napoli grazie all’imprenditore Francesco Cirio, ancora oggi fra i nomi più noti delle grande distribuzione: è a lui che si deve l’introduzione della tecnica di conservazione in scatola inventata da Nicolas Appert nel Settecento. Anche il concentrato di pomodoro nella versione industriale nasce nella provincia di Parma: il successo risale agli anni ’50, quando l’azienda Mutti di Montechiarugolo comincia a commercializzare il concentrato in tubetto.
Fra i sughi della tradizione, immancabile è il pesto alla genovese, che si sposa bene sia alle trofie che alle trenette. Lo chef predilige le seconde, “a patto che siano fatte a mano: sconsiglio sempre di comprare la pasta fresca confezionata perché la trafilatura di solito è molto spessa, e questo rende la pasta meno callosa e ruvida”. Le trenette sono un formato acqua e farina, in origine nato come “pasta avvantaggiata”, ovvero con una parte di farina integrale, che in passato aveva un prezzo inferiore rispetto a quella bianca, e una percentuale bassa (circa il 20%) di farina di castagne. Insieme al pesto, vengono generalmente aggiunte patate e fagiolini.
Per farlo in casa si usano mortaio di marmo e pestello di legno e poi pochi ingredienti ma di ottima qualità: olio extravergine di oliva, basilico, parmigiano, Fiore Sardo, pinoli, aglio. In principio era il moretum romano, primordiale versione del pesto composta da un mix di erbe, pecorino, sale, olio d’oliva e aceto, ma bisogna attendere l’Ottocento per le prime testimonianze scritte, che si trovano ne “La vera cuciniera genovese” di Emanuele Rossi. C’è anche un’altra ipotesi che sostiene invece che il pesto non sia altro che un’evoluzione dell’agliata (aggiada in dialetto genovese), fatta con aglio, mollica di pane, olio d’oliva, vino e aceto.
Tipico formato di pasta della tradizione emiliana, le tagliatelle sono ormai da tempo diffuse in tutta la Penisola, abbinate a sughi diversi a seconda della zona, “ma l’accostamento perfetto resta quello con il ragù alla bolognese”. La leggenda narra che sia stato Zafirano (o Zaffirino), cuoco alla corte di Giovnni II Bentivoglio, ad inventarle in occasione della visita di Lucrezia Borgia a Bologna. Secondo il racconto popolare, infatti, il cuoco si sarebbe ispirato proprio ai capelli biondi della donna per creare le celebri tagliatelle. Originariamente riservate ai giorni di festa, venivano consumate anche dalle famiglie meno abbienti: nelle campagne, durante l’autunno, i contadini facevano scorta di uova per il periodo invernale, conservandole nelle lòle, delle giare di terracotta, con una soluzione di acqua e calce.
Molto diverso dal cugino napoletano, il ragù alla bolognese è il sugo più famoso dell’Emilia-Romagna, il più apprezzato e ormai famoso in tutto il mondo, dove è disponibile anche in una versione commerciale già pronta. Ogni famiglia bolognese che si rispetti ha una sua ricetta, ma per chi volesse provare quella originale, ne esiste una versione ufficiale depositata il 17 ottobre 1982 alla Camera di Commercio di Bologna, che prevede l’uso della polpa di manzo, la pancetta tesa, la salsa di pomodoro, il brodo vegetale, la panna, il latte intero, il vino bianco secco, le carote, il sedano, la cipolla, il sale e il pepe.
Non c’è niente di più rassicurante e confortevole a fine giornata di un buon piatto di pasta e legumi. In Campania è pasta e fagioli a farla da padrona, “con lo spaghetto spezzato, che a me piace moltissimo, oppure con la pasta mista, che è più popolare”. Ovvero un mix di formati diversi, nato come ricetta di recupero: le massaie, infatti, erano solite riunire insieme tutti gli avanzi dei pacchi di pasta non sufficienti per l’intera famiglia in un unico contenitore, così da averne a disposizione per tutti e non sprecare nulla. “Una delle caratteristiche più belle di questo piatto”, spiega Guida, “è la diversa consistenza dei formati, che vengono buttati in acqua tutti insieme pur avendo tempi di cottura diversi, così alcuni pezzi rimarranno più callosi, altri meno”. Sono diverse le tipologie a disposizione in commercio, “a me piacciono quelle più ricche, in cui si trova di tutto, anche il pacchero, il conchiglione, il rigatone”.
L’usanza di cuocere la pasta insieme ai legumi era diffusa già nel Medioevo, poco dopo la scoperta del fagiolo in America e la sua introduzione, insieme ad altri ingredienti, in Europa. Anche gli antichi romani consumavano zuppe di pane e legumi, ma si trattava di varietà diverse dal phaseolus che si mangia ancora oggi. Detti anche “la carne dei poveri”, i fagioli hanno avuto da subito un gran successo in cucina, impiegati nella preparazione dei piatti più svariati, fra cui la pasta e fagioli, che nella versione napoletana si distingue per l’utilizzo della pasta mista e per la tipologia di cottura, che avviene insieme: cuocendo la pasta insieme ai legumi, l’amido viene conservato e il piatto risulta più cremoso (a Napoli si chiama infatti pasta e fagioli azzeccata).
a cura di Michela Becchi
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