Sono stato alcuni giorni per lavoro in una grande città del Sud, che non nominerò, ho mangiato tre volte in tre trattorie/ristoranti medi ma selezionati e mi sono terribilmente annoiato, cosa che non è bella non tanto e non solo per il sottoscritto, ma perché costituisce ormai un malcostume purtroppo consolidato. Cosa significa che mi sono annoiato? Che ho mangiato cose tipiche, ricette di una cucina famosa e che contribuisce a fare di questa città una meta turistica letteralmente presa d’assalto, con conseguente inflazione di locali per mangiare e bene, e le ho trovate tutte piatte, sciattamente eseguite e altrettanto sciattamente proposte. Non spiccavano la materia prima, sanitariamente corretta ma totalmente anonima, l’esecuzione pedestre, l’inesistente personalizzazione.
Sarebbe tuttavia assai ingeneroso attribuire questa noia solo alla ristorazione di questa città, anche se probabilmente una relazione esiste tra la sua esplosione turistica e la conseguente inflazione di osterie, trattorie, taverne, che, come nelle isole greche, propongono tutte lo stesso menu, decontestualizzato, destagionalizzato, depurato di ogni elemento potenzialmente ispido e di ogni fantasia. Due palle, che appunto stanno diventando comuni a molti, troppi locali di cucina tipica, soprattutto se di recente apertura e soprattutto se piazzati in località di rilevanza turistica, come sono ormai praticamente tutte le nostre città.
Si mangia una selezione ingentilita, depotenziata, e troppo spesso tirata via della cucina locale (solo quello che capisce anche un tedesco, per dire), tanto cremosa e senza sapori scorretti, ma che noia, soprattutto se non sono i cosiddetti “ristoranti turistici” a praticarlo, perché “turistico” diventa quasi ogni menu. Se togli questi posti, i ristoranti pretenziosi, le pizzerie, gli etnici e gli immancabili ristoranti romani (che stanno acquisendo un’estensione prossima a quella dell’Impero) i posti dove mangiare “vero” restano ovunque pochissimi, una razza in via d’estinzione. Ne discende anche che così non esistono più cucine buone e cucine cattive, sono tutte accettabili, instagrammabili e pistacchiose, ossia celebrano il funerale della cucina tipica, che proclamano di vendere.
Forse, anzi certamente, quando in una città raddoppiano i ristoranti nel giro di pochi anni, e questi come il granchio blu scacciano quelli che c’erano prima, l’appiattimento è semplicemente inevitabile. Funziona il tipico? Facciamo il tipico, o meglio facciamo del tipico quello che abbiamo capito e che piace ai turisti e a chi non capisce nulla, come lo spritz.
Come difendersi? Chiedendo ai locali di cui ci si fida, e considerando alcuni alert:
1. Se il locale è troppo social, e popolare sui social, sarà anche molto probabilmente un posto da cucina cremosa, sospettare;
2. Se il locale non è in un territorio particolarmente vocato alla salumeria e insiste per proporre un bel tagliere di salumi e formaggi e magari un frittino, diffidare;
3. Se il locale che si proclama tipico propone solo cose che a voi, che venite da molto lontano, sono familiari, dubitare;
4. Se il locale è tutto tipico, addirittura con abuso del dialetto (perché?), ma ti spara una cacio e pepe così a muzzo e non sei a Roma, scappare direttamente.
Siamo tutti o quasi sovrappeso, e se andiamo a mangiare lo facciamo soprattutto per conoscenza e per piacere. La conoscenza doppiata, il piacere dimidiato dalla massificazione di tutto, la popolarizzazione di ogni cibo popolarizzabile, che necessariamente comporta l’oblio di quello che non è vendibile nel bistrot di un aeroporto è un colpo lento ma inesorabile alla nostra cultura gastronomica, che è poi gran parte della nostra cultura punto. Non ci mangiate nei posti banali, e se vi capita fatelo presente, farete un favore a voi stessi e anche agli altri.
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