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I ristoranti diventeranno bakery? Tanti sono obbligati a cambiare format per la mancanza di personale

Molti ristoratori pensano di riformulare orari e turni di apertura a fronte di una enorme crisi di personale. E in tanti puntano a fare della loro insegna una bakery. Tra un po' andremo a pranzo in panetteria?

  • 24 Luglio, 2024

Andremo a mangiare nelle bakery invece che al ristorante? Suona strano, ma in realtà è ciò che avviene sempre più spesso nella vita quotidiana. Basta pensare alle pause pranzo. O anche agli aperitivi o apericena. La tendenza, però, comincia ad avere un peso importante e una diffusione estesa. Mario Sansone, patron di Marzapane a Roma che ha già annunciato il cambiamento, non ha dubbi: «Molti colleghi mi chiamano preoccupati e mi dicono che stanno pensando a nuovi format, a nuovi modelli di impresa nell’ambito del mangiar fuori». Nomi non ne vuole fare. «In realtà in tanti ci pensano – afferma al telefono intercettato nella sala pesi della sua palestra – Molti di loro magari non hanno ancora le idee troppo chiare e sentono ancora come una diminuito il passaggio da ristorante a panetteria o a un format simile». Lui ha fatto un coming out coraggioso e fiero rispetto al progetto che inizierà a settembre prossimo sulle “ceneri” del Marzapane come lo abbiamo conosciuto finora. Del resto lui è un anticipatore di tendenze, un imprenditore che sa intercettare le dinamiche. «Beh, sicuramente non è più sostenibile continuare così. I dipendenti sono sempre meno motivati a fare turni lunghi e a lavorare in ore in cui le persone “normali” si riposano o si divertono – spiega Sansone – Abbiamo fatto tanti colloqui e di fatto quasi nessuno vuole lavorare nel weekend. Lo capisco. Ma la ristorazione come l’abbiamo conosciuta (o vissuta) finora chiede quelle modalità di lavoro. Ed è sempre più raro trovare chi è disposto a sacrificare la vita privata».

L’esperienza del Covid alla fine ci ha cambiati

Come dar torto a chi non vuole togliere troppo tempo ed energie ad affetti e amici? D’altronde, abbiamo filosofato in lungo e in largo di come il Covid ci avrebbe cambiato. E di come ci ha cambiati. Poi, a un certo punto, sembrava quasi che ci fosse uno stallo (una marcia indietro) rispetto a quelle tendenze. Invece ecco che si ripresentano in tutta la loro forte semplicità: il lavoro non è tutto. La vita privata deve avere i suoi spazi. E se fino a quattro anni fa ci sarebbe stata la fila per lavorare in un posto fisso con 14 mensilità assicurate, ferie e malattia coperte, oggi la priorità non è più quella. Non è per forza “decrescita felice“, ma forse semplicemente fare i conti con la realtà. Se il lavoro è sempre più precario e meno garantito, coloro che sono nati e cresciuti nel mondo così come si è strutturato negli ultimi 20 anni non sono più disposti a sacrificare l’esistenza al totem del posto fisso. La “pausa di riflessione” dovuta al Covid non ha fatto altro che dare struttura a questa realtà. Visto che non devo aspirare più al posto fisso e alle garanzie che mi assicura – pensa un Gen Z (nato tra la seconda metà degli anni Novanta e i primi dieci anni del 2000) – Allora voglio decidere anche io i miei spazi e le priorità cui dare peso. Il ragionamento non fa una piega.

La metà dei ristoratori pensa a nuovi orari

Dati, sul fenomeno di cui parliamo, non ce ne sono. Ma le voci e i rumors si rincorrono anche nei corridoi delle associazioni di categoria. Anche la richiesta di riconoscere le imprese di ristorazione come imprese turistiche avanzata da Fipe (qui la nostra anticipazione) è un segnale di come la ristorazione stia cercando sponde diverse e più articolate di quelle esistenti. Che al momento sono davvero ben poche. «È impossibile avere il polso preciso di queste dinamiche – spiega Luciano Sbraga, direttore del Centro Studi Fipe e vicedirettore generale dell’associazione di categoria – Ma un dato invece forte su cosa sta accadendo c’è: si stanno modificando gli orari di lavoro sia in termini di durata sia in termini di scelta netta nell’apertura tra pranzo o cena. Non abbiamo i numeri di chi già ha praticato questa scelta, ma posso affermare che almeno il 50% dei ristoratori ci sta pensando e sta riflettendo su come reimpostare l’attività. Chi deciderà concretamente questa strada, poi si vedrà. Ed è una dinamica che interessa anche i bar. Solo un esempio: un bar per stare aperto sette giorni su sette ha bisogno di un dipendente in più. E al di là della difficoltà a trovare o meno un addetto, la scelta costerebbe a spanne 30mila euro in più l’anno. Un impegno che richiederebbe più o meno un aumento del fatturato di 90mila euro».

Un settore ancora poco unito

Il mondo del mangiar fuori casa, dunque, è in profonda trasformazione. Uno dei problemi della categoria, però, è che ancora in molti imprenditori si guardano in cagnesco timorosi della concorrenza dei colleghi. «Certo – spiega Sbraga – servirebbe una condivisione più ampia, un maggiore coinvolgimento delle imprese su queste riflessioni. Altrimenti c’è paura che se si riducono gli orari o i giorni di apertura, i clienti scappino. Il pensiero è che il cliente è affezionato finché non trova un posto migliore. Il pensiero è che se nel giorno di chiusura 10 abituali vanno dal concorrente vicino che sta aperto, poi magari due di loro resterebbero di là. Se invece ci fosse più coinvolgimento, la paura si neutralizzerebbe».

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