Ho fatto un sogno. Ero nel pieno della maturità alcolica e aprivo un locale «The best you can drink». Un posto dove entravi, pagavi una quota e bevevi. Non l’open bar, che in questi anni si è rivelata una perfetta macchina bellica per distruggere fegati e carriere, con ettolitri di gin tonic scadenti serviti in bicchieroni di plastica e che avevano come unico scopo quello di farti barcollare e di indurti a provarci con il primo o la prima a portata di tiro. Non il volgarissimo open bar, dunque, ma un raffinatissimo open wine.
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Era un locale caldo, che alternava in sottofondo la musica dei Fontaines D.C e Bach suonato da Glenn Gould. Senza sedie, se non per l’emergenza. Solo alcuni tavoloni sociali con sopra bottiglie aperte. Tante. Magnum. Jeroboam. Mathusalèm. Salmanazar da nove litri. Niente camerieri-avvoltoi azzimati, niente giovani hipster che ti infastidiscono con il terroir e gli affinamenti in cemento, solo clienti che litigano tra di loro se sia meglio il Boca o il Bramaterra. Per evitare ubriachezze moleste e sbornie ineleganti, avevo tirato su il prezzo d’ingresso. Avevo pensato, mi spiace, un locale classista, riservato a chi ha classe e se lo può permettere. Anzi, riservato a chi preferisce spendersi tutto o quasi lo stipendio, anche se misero, in vini di qualità, piuttosto che sperperarlo in borse griffate e vacanze instagrammabili.
Il mio era un club arredato con sobrietà, almeno lui. Niente Riedel e Zalto, ma bicchierini di vetro spesso, come nei vecchi bistrot parigini. I clienti pagavano 200 euro e sorridevano. Ci venivano almeno una volta alla settimana. Duecento euro per assaggiare dieci, quindici vini indimenticabili. Senza sputare, come fanno gli orribili degustatori da fiera. Senza ubriacarsi. C’erano almeno cento etichette da scoprire, che cambiavano tutte le settimane. Niente Sassicaia, niente Monfortini, niente Masseto. Niente brand. Avevo invitato anche certi produttori logorroici, che facevo pagare e che avevano il divieto di parlare. Vicino alle bottiglie, gnocco fritto, salumi piacentini, cucunci, cetrioli.
Poi, ho aperto gli occhi. Mi sono ritrovato seduto in una finta trattoria di Grignano Polesine, con le tovaglie a quadri rossi. Sulla carta plastificata macchiata d’unto c’erano tre proposte al bicchiere: prosecchino, Muller Thurgau, Primitivo. Non c’era il nome dei produttori. Ero sveglio, ma piangevo. Mi uscivano lacrime di Morro d’Alba. Invocavo un miracolo, la moltiplicazione dei vini. Chiedevo con tono petulante e patetico all’incolpevole cameriere perché mi volessero male. Mi sentivo la gola bruciare. A un certo punto ho perso i sensi. Tutti. L’olfatto e il gusto sono stati i primi ad abbandonarmi. Quando sono venuti a prendermi, uno mi ha chiesto se avevo sentito la gomma arabica nel Primitivo. Scuotevo la testa, no, non mi pareva, forse un accenno di bentonite. A quel punto non ricordo più nulla, ho chiuso gli occhi e sono tornato nel mio club. Era vuoto e c’erano cento bottiglie aperte che mi sorridevano.?????????????????????
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La più autorevole guida del settore dell’enologia italiana giunge quest’anno alla sua 37sima edizione. Vini d’Italia è il risultato del lavoro di uno straordinario gruppo di degustatori, oltre sessanta, che hanno percorso il Paese in lungo e in largo per selezionare solo i migliori: oltre 25.000 vini recensiti prodotti da 2647 cantine. Indirizzi e contatti, ma anche dimensioni aziendali (ettari vitati e bottiglie prodotte), tipo di viticoltura (convenzionale, biologica, e biodinamica o naturale), informazioni per visitare e acquistare direttamente in azienda, sono solo alcune delle indicazioni che s’intrecciano con le storie dei territori, dei vini, degli stili e dei vignaioli. Ogni etichetta è corredata dall’indicazione del prezzo medio in enoteca, delle fasce di prezzo, e da un giudizio qualitativo che si basa sull’ormai famoso sistema iconografico del Gambero Rosso: da uno fino agli ambiti Tre Bicchieri, simbolo di eccellenza della produzione enologica. che quest’anno sono 498.
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