Qualche settimana fa, il Gambero Rosso ha pubblicato online una gustosissima cronaca dell’evento 50 Best a Las Vegas. Il premio ai migliori ristoranti del mondo quest’anno è stato molto avaro con i nostri chef, quasi tutti declassati in favore soprattutto degli spagnoli.
I premi, si sa, lasciano il tempo che trovano, ma portano con loro in qualche modo il segno dei tempi e negli sfoghi degli addetti ai lavori si poteva cogliere qualche spunto interessante. Gli italiani, si ragionava, hanno perso certo per inciuci tra spagnoli e latinoamericani, ma soprattutto perché sono troppo “artigiani”: hanno il viziaccio di stare in cucina nei loro locali, che hanno a loro volta il viziaccio di stare in posti scomodi, da Castel di Sangro a Senigallia a Alba. Se fossero tutti concentrati comodamente nelle città turistiche sarebbe tutto quanto assai più comodo.
Vero forse, ma un po’ triste. I ristoranti di qualità sono dove sono perché rappresentano il massimo sviluppo del “genius loci”, di una cultura del territorio, dei suoi prodotti e delle sue tradizioni. Di più, sono lì perché ci vanno, o meglio ci andavano, a mangiare anche i locali, magari il titolare della “fabbrichetta” che ci portava il cliente importante per chiudere il contratto. Sono, o erano, luoghi vivi e per questo affascinanti, ancora più affascinanti perché era difficile da raggiungere e dunque in qualche modo presidio di bellezza e internazionalità in posti marginalizzati. Sono, o erano, un pezzo della ricchezza di questo Paese, che risiede nella sua bella, caotica varietà, che la cucina declina al meglio.
Spianare questa varietà per fare dell’alta cucina una variazione dei brand dell’alta moda, presenti dove c’è gente con i soldi da Kuala Lumpur a Los Angeles passando per Roma e Milano (al massimo Firenze) è certamente un’operazione coerente con l’obiettivo di fare più soldi, ma che ci allontana molto dalle nostre radici. Poco male, senonché quelle radici rappresentano uno, non l’unico, dei nostri punti di forza. Senza, siamo un paese piccolo e più o meno felicemente in declino. Un parco giochi tra gli altri.
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La più autorevole guida del settore dell’enologia italiana giunge quest’anno alla sua 37sima edizione. Vini d’Italia è il risultato del lavoro di uno straordinario gruppo di degustatori, oltre sessanta, che hanno percorso il Paese in lungo e in largo per selezionare solo i migliori: oltre 25.000 vini recensiti prodotti da 2647 cantine. Indirizzi e contatti, ma anche dimensioni aziendali (ettari vitati e bottiglie prodotte), tipo di viticoltura (convenzionale, biologica, e biodinamica o naturale), informazioni per visitare e acquistare direttamente in azienda, sono solo alcune delle indicazioni che s’intrecciano con le storie dei territori, dei vini, degli stili e dei vignaioli. Ogni etichetta è corredata dall’indicazione del prezzo medio in enoteca, delle fasce di prezzo, e da un giudizio qualitativo che si basa sull’ormai famoso sistema iconografico del Gambero Rosso: da uno fino agli ambiti Tre Bicchieri, simbolo di eccellenza della produzione enologica. che quest’anno sono 498.
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