Durante il periodo borbonico, Napoli era una città molto popolosa, segnata da una forte disuguaglianza economica tra le classi sociali. Questa disparità ha portato la popolazione a reinventarsi, soprattutto in ambito culinario: la cucina povera, infatti, si distingueva per la sua ingegnosità, trasformando ingredienti di scarto in piatti ricchi di sapore e sostanza. Nella cucina popolare partenopea, niente veniva sprecato.
La tradizione delle zendraglie
Una volta, i tagli meno pregiati degli animali, le interiora e scarti di lavorazione, venivano gettati letteralmente dalle finestre delle case nobiliari e recuperati dai poveri per sfamarsi. Da questa usanza deriva il termine “zendraglie”, che traduce il francese “entrailles", viscere, interiora. Quando il popolo partenopeo sentiva gridare "Les entrailles!", sapeva che i servitori di corte (spesso i cuochi erano francesi) annunciavano che stavano per gettare i resti delle cene di palazzo, e le persone, soprattutto le donne, affamate, accorrevano per accaparrarsi un pezzo di carne tra urla e frastuoni.
Il piede e il muso
Nel dopoguerra e nei decenni successivi, tra Napoli e zone limitrofe, arrivando alle propaggini dove l’entroterra napoletano incontra le altre province, soprattutto quella di Salerno con l'agro nocerino-sarnese, si diffondeva la lavorazione di o’ per e o’ muss. Pietanza tradizionale povera, o’ per e o’ muss si preparava con il piede di maiale e il muso del vitello, parte di una cucina antispreco, perché venivano utilizzati tutti i tagli di carne e non si buttava via niente. Al piede e al muso si aggiungevano anche altre frattaglie, tra cui la trippa. I pezzi di carne venivano depilati, bolliti, raffreddati e serviti tagliati molto sottili, a fette lunghe, dette “alla carrettiera”, aggiungendo abbondante sale e limone.
L’impiattamento davanti al cliente
Le teste e i piedi venivano bolliti in bidoni pieni d’acqua e tutto il procedimento si prolungava fino al mattino; ad aspettare la fine della lavorazione c’erano i venditori, chiamati “per e mussar”, che con i propri carretti erano pronti a partire per vendere la preparazione in giro per le città, insaporendola con sale e limone. Per salare o’ per e o’ muss veniva utilizzato un caratteristico strumento, un corno di animale bucato all’estremità, che fungeva da dosatore. Oggi purtroppo è difficile vedere ancora questo strumento e il suo rituale di utilizzo, che caratterizzava tutta la procedura di “impiattamento” che di solito avveniva al momento, davanti al cliente.
Cibo di strada
Tutt'ora la preparazione è considerata uno degli street food tradizionali per eccellenza in Campania, legato ai ricordi d'infanzia e alle feste patronali. O’ per e o’ muss lo si può acquistare dai carnacottai, venditori di carni cotte (detti in dialetto “i carnacuttar”), caratteristici chioschi con vetrine a vista, dalle quali si osservano solitamente i pezzi di carne sotto acqua corrente e i limoni di contorno. A Napoli, questi chioschi si trovano nel centro storico, in particolare nella zona di via Pignasecca, con il suo caratteristico mercato.
Invece, in occasione di sagre, feste di paese e soprattutto nei periodi estivi, o’ per e ‘o muss ricompare su tutto il territorio regionale e viene venduto dai “per e mussar” tramite postazioni ambulanti, vetrine mobili o Apecar, servito in vaschette di plastica o, più tradizionalmente, su fogli di carta oleata.
A cura di Federica Capuano, Master in Comunicazione Multimediale dell'Enogastronomia - Università degli Studi Suor Orsola Benincasa (Napoli) in convenzione con Gambero Rosso Academy.