Esiste il concetto di terroir nei distillati? Domanda d’obbligo per noi che siamo legati alla tradizione vitivinicola: ci viene a bastanza normale pensare alla connessione tra un territorio agricolo e la produzione agroalimentare. Esempio di questo legame sono per esempio Doc e Igp, le denominazioni territoriali protette e garantite dalla Ue. Paradossalmente, però, nel mondo degli spirit – pur soggetto a molte normative – non è esattamente così.
Non esiste infatti connessione geografica tra il luogo in cui viene distillato il prodotto e la materia prima che serve alla distillazione.
Facciamo un esempio concreto: un Whisky di Speyside - che per regolamento non solo deve essere distillato in loco, ma deve anche completare l’intero periodo d’invecchiamento all’interno dei confini della Scozia - non è soggetto ad alcuna restrizione per quanto riguarda la materia prima utilizzata e può essere quindi distillato partendo da grano ucraino. Un po' diversi invece sono i modelli del francese Cognac e quello della Tequila messicana: in entrambi i casi le norme stringono molto le maglie sulla tipologia di vegetale (vino, quindi uva, e agave) che si può utilizzare e sulla zona di produzione da cui deve provenire. Eppure, anche se ci sono delle regole legate ai territori, in linea di massima non c’è nessun legame tra il contadino e il distillatore come invece accade per il vino.
La "craft distillery"
In un mondo in cui poche grandi multinazionali hanno acquistato la maggior parte dei marchi e degli stabilimenti degli artigiani indipendenti, la strategia produttiva punta alla quantità e alla costanza degli standard di prodotto che non alla territorialità delle materie prime: la distillazione diventa così il più delle volte uno strumento per appianare le diversità derivanti dalle differenti forniture con lo scopo di rendere il risultato finale riproducibile in serie; e poco importa se il vino di partenza sarebbe stato particolarmente adatto a essere esaltato per le sue caratteristiche legate magari all’esposizione del vigneto o all’annata particolarmente favorevole, oppure se al contrario un povero contadino di Jalisco strozzato dai debiti ha dovuto tirare le agavi fuori dal terreno dopo soli 4 anni (età minima della pianta secondo il disciplinare della Tequila) invece di aspettare il giusto grado di maturazione e di concentrazione zuccherina.
Però… c’è un però. Mentre infatti una (grossa e importante) parte del mercato si omologa e si aggrega in realtà industriali sempre più forti e potenti sul fronte finanziario e produttivo, dall’altro lato della barricata gli ultimi decenni sono stati il momento di esplosione del fenomeno – in tutto il mondo – delle Craft Distillery che in Italia chiameremmo artigianali. Questa nuova generazione di imprenditori “artigiani” appassionati, per la prima volta ha cominciato a ragionare sul fatto che per parlare di territorialità sia necessario considerare tutta la filiera partendo dall’agricoltura. Come dire: non solo mangiare, ma anche bere è un atto agricolo!
La distilleria che parte dal Chianti
Se nel mondo le cose cambiano, l’Italia non è avulsa da questa new wave che sta rivitalizzando le distillerie. Basta andare in Chianti Classico per capirlo. Qui ha sede uno dei pochissimi laboratori italiani (4 o 5 in tutto se escludiamo le “grapperie” che però sono un altro mondo) che distillano il “proprio alcol” di base. Se infatti sono molte le micro-distillerie che negli ultimi anni hanno acceso i propri alambicchi,la maggior parte di queste acquista alcool “neutro” (di origine spesso extra europea) e poi lo distilla insieme alle varie botaniche per creare il “proprio” gin. Diverso, appunto, il caso di Winestillery che ha dato vita a un'innovativa fusione tra enologia e distillazione. Fondata dalla famiglia Chioccioli Altadonna, è guidata oggi da Enrico, master distiller che si è formato in lunghe esperienze all’estero e che, rientrato in Chianti, ha portato con sé idee rivoluzionarie. Prima Enrico è stato in Francia: per capire il Cognac (ma anche le botti, i legni); poi in America: sulle tracce del Whiskey; quindi è rientrato con un progetto molto chiaro in testa: distillare – in mezzo alle vigne stesse – il Chianti prodotto dalla sua famiglia per trasformarlo in un gin a base di botaniche toscane. Per capire l’importanza di questo vino nella produzione di un alcolico, basta provare la vodka che ne deriva: assolutamente (e fortunatamente) non “neutra” e ricca di sapori e profumi legati alle di origine.
Oggi Winestillery offre una gamma diversificata di spirit: dal London Dry all'Old Tom (reso dolce da un sapiente equilibrio degli ingredienti e dall’invecchiamento, più che dallo zucchero) e allo Sloe Gin (chiamato Slow Gin, a base di vinacce) oltre alla già citata vodka da vino. Winestillery apre nuovi orizzonti nel mondo dei distillati, portando il concetto di terroir molto al di là di quello tracciato dal vino.
La rinascita del single malt
Islay, la regina delle Ebridi, è da sempre reputata la patria dei whisky torbati. È qui che nel 2005 ha aperto Kilchoman, prima nuova apertura sull’isola scozzese dopo gli oltre 120 anni trascorsi dall’ultima accensione di un nuovo alambicco. Kilchoman è una micro-distilleria agricola che lavora dal campo all’alambicco e punta alla produzione di un single malt legato alla terra. Nonostante la produzione annua già superi il considerevole volume di 450mila litri (che è comunque meno della metà di quanto produca mediamente uno dei singoli “colossi” che operano sulle stesse coste), Kilchoman punta all'autarchia. E aumenta di anno in anno le etichette "100% Islay" che danno una narrazione diversa del distillato simbolo di questa terra raccontandone appunto le diversità legate alle varie annate, ai differenti raccolti e alle condizioni di invecchiamento perseguite sull’isola. Kilchoman, pur conservando una dimensione intima, riesce ad abbracciare la modernità senza però perdere l'essenza della tradizione. Il Malting Floor interno, uno dei pochi attivi in Scozia, contribuisce significativamente a questa battaglia identitaria mantenendo viva la pratica della maltazione a pochi passi dai campi coltivati a orzo.
La posizione dell’azienda agricola, vicina all'Oceano Atlantico, influisce poi in modo incisivo sul carattere dei whisky, aggiungendo palesi e intriganti note marine a quelle tipiche torbate di Islay.
Il miracolo del whisky francese
Se i francesi si mettono in testa di fare qualcosa, soprattutto se si tratta di un prodotto d’eccellenza, è raro che non lo facciano bene. Negli ultimi decenni, anche sulla spinta del crescente consumo interno, il Paese d’Oltralpe si è messo a fare ottimi whisky, complice la lunga esperienza nell’invecchiamento dei tradizionali Cognac e Armagnac sostenuta dalla lunga storia che ha qui la coltivazione di cereali e la loro maltazione per la produzione della birra. Tra tutte le nuove aziende attive, però, una potrebbe portare la bandiera della più avanzata sperimentazione nel settore della distillazione e non solo in Francia. Parliamo di Rozelieures, in Lorena, una delle poche distillerie al mondo che gestisce tutte le fasi della produzione: una filiera chiusa grazie ai campi di proprietà, al maltificio aziendale, e finanche alla disponibilità di pregiati boschi da cui vengono i preziosi legni per le botti in cui il distillato viene elevato. Dietro a questo progetto c’è la famiglia Grallet-Dupic che ha fondato l’azienda nel 1860 e che la gestisce generazione dopo generazione. Rozelieures, che ha una esperienza centenaria nella distillazione della frutta e in particolare della tradizionale e territorialissima mirabelle, è emersa negli ultimi anni come protagonista nel mondo del whisky made in France. La sua bandiera è Parcellaire, un esperimento legato fortissimamente alla terra: ogni anno l’azienda presenta sul mercato due diverse etichette figlie di orzo (e malto) coltivato in diversi campi della tenuta (in sostanza dei veri e propri cru). Per esempio, uno di questi wisky è distillato a partire da orzo coltivato in un appezzamento vicino al corso di un fiume assai limaccioso e viene presentato al fianco di un’altra etichetta derivata invece da un diverso orzo coltivato su una collina argillosa. I due wisky, prodotti separatamente a poche ore di distanza e messi a invecchiare nello stesso legno, danno la possibilità di un assaggio orizzontale su due prodotti gemelli ma non omozigoti, dove a fare la differenza è soltanto il terroir. In pratica, in Francia si sta scrivendo la storia del Whisky, ma forse il mondo ancora non se ne è accorto.
Si fa presto a dire patate
Fondata da Tad Dorda nel 1993 – subito dopo la fine dell’URSS – in Polonia, Chopin Vodka è stata forse la prima Vodka premium del mondo, e alla base della sua filosofia produttiva troviamo il tubero che da secoli è il grande protagonista delle tavole polacche, ovvero la patata. Per la distillazione Chopin utilizza esclusivamente quelle polacche di alta qualità da fattorie entro le 18 miglia. Questa scelta preserva la freschezza e la purezza dei tuberi che vengono poi passate per quattro volte attraverso un antico alambicco a colonna del 1896. Per spiegare il lavoro maniacale che l’azienda fa intorno alla materia prima, è interessante analizzare un’etichetta in particolare, la Chopin Family Reserve: è realizzata solo con early potato, ovvero quelle piccole di inizio raccolto, le novelle, e riposa due anni nelle botti prima di essere messa in bottiglia. Oltre che sulla qualità, Chopin è impegnata anche nella sostenibilità sociale: infatti acquista le sue patate solo da fattorie a gestione familiare e che coltivano senza uso di prodotti chimici. Anche qui il lavoro sperimentale e di ricerca la fa da padrone. Oltre ai prodotti che rispettano il disciplinare della vodka e che possono essere quindi ufficialmente commercializzati con questo nome, il master distiller di lunga data di Chopin, Waldemar Durakiewic, si dedica quotidianamente a esplorare nuove ricette, blend e invecchiamenti.
Queste sperimentazioni coinvolgono diverse varietà di patate (più di cento quelle già testate) e invecchiamenti sempre più lunghi in botti di legni diversi. Durakiewic, inoltre, collabora attivamente con l'Istituto Nazionale della Patata per sviluppare distillati mono-varietali.
Messico, Mezcal Revolution
Negli ultimi anni, i distillati dell'agave stanno vivono una rinascita superando la “fase adolescenziale” influenzata da abitudini di consumo discutibili importate dagli Usa. Questa rinascita è evidente nel rinnovato interesse per il potenziale che hanno quegli spirit in miscelazione e per la loro complessità aromatica in degustazione. In tal senso sono estremamente interessanti da scoprire i Mezcal chiamati Single Palenque creati coinvolgendo sette produttori locali nella prima etichetta di Mezcal monorigine. Un progetto che richiede agli agricoltori di impegnarsi a produrre solo con agave coltivata in proprio e seguendo regole rigorose: dalla raccolta manuale alla cottura in forni tradizionali e alla fermentazione spontanea. Il risultato è un Mezcal limitato a 1.200 bottiglie per produttore: un progetto ce punta a ridare senso e anima alla tradizione ancestrale di questa produzione. Il progetto non solo retribuisce i produttori ma consente loro di vedere in etichetta il proprio nome e volto: una vittoria impagabile per coloro che per anni sono stati protagonisti anonimi e sfruttati. Come per il vino, insomma, cominciano a metterci la faccia.
Rum, ultimo stop: isola di Haiti
Nei Caraibi la distillazione dei sottoprodotti della canna da zucchero ha una storia di oltre 3 secoli. Nel tempo, però, questa tradizione si è sempre più allontanata dalla dimensione agricola per approdare a una vera e propria industrializzazione intensiva: oggi sono meno di 50 le distillerie in attività. Immaginiamo dunque la sorpresa di Luca Gargano, tra i maggiori esperti e selezionatori al mondo, quando per la prima volta è arrivato nella poverissima Haiti, dimenticata dalle multinazionali, dove si trovano ancora circa 500 distillerie artigianali ancorate ai villaggi e alle campagne che producono rum agricoli da puro succo di canna. Contrariamente alla tendenza industriale, i Clairin haitiani vengono ottenuti da una singola distillazione che preserva le note aromatiche delle differenti varietà di canna locali. Gargano se ne è fatto ambasciatore nel mondo e, per preservarne la genuinità, ha imposto delle regole precise ai coltivatori che volessero lavorare con lui: dalla coltivazione biologica alla raccolta manuale, fino al trasporto su carro per preservare la qualità. Gargano ha selezionato cinque varietà, definendo rigorosi criteri di produzione: fermentazione con lieviti naturali per almeno 120 ore, distillazione in alambicchi con massimo 5 piatti di rame a contatto diretto con il fuoco, imbottigliamento al grado di uscita dell'alambicco e da realizzare obbligatoriamente ad Haiti. Questo disciplinare mira a preservare l'autenticità del Clairin e apre la strada a chiunque desideri estendere questa tipologia di produzione.