Il vino italiano per fascia di prezzo si posiziona al centro. Detiene, infatti, il primato per consumi premium e popular, ma non per quelli luxury. È quanto emerge dai dati dell’Osservatorio del vino Uiv-Vinitaly su base Iwsr, che stima un valore al consumo della superpotenza enologica italiana pari a 29,9 miliardi di dollari. Ma vediamo nel dettaglio.
I vini entry level e popular del Belpaese (fino a 15 dollari allo scaffale sotto i 5 alla cantina) sono leader delle vendite con una quota sul totale segmento pari al 23% e un controvalore al consumo pari a 15,9 miliardi di dollari. Primato bissato anche per i premium, con l’Italia principale fornitore con una quota sulla categoria che arriva al 30% (11,2 miliardi di dollari).
Stiamo però parlando di una fascia che – a dispetto del nome e dell’aura premium con cui li si ammanta – rappresenta prodotti medio-alti che escono dalle cantine tra i 5 e gli 8 dollari al litro e che finiscono sugli scaffali di tutto il mondo con un range di listino che varia dai 15 ai 25 dollari. Il Prosecco negli Usa è il caso più emblematico.
Se saliamo di fascia e, quindi, di prezzo la situazione appare ben diversa per l’Italia. Quello che manca all’appello sono i vini posizionati nelle fasce più alte – deluxe (oltre i 25 dollari al dettaglio e a partire da 8 dollari alla cantina) -attestati per quanto riguarda il Belpaese al 2% volume (e al 9% valore), contro il 42% della Francia e il 30% dei vini statunitensi.
In particolare, lo share italiano sul totale mondo arriva appena al 10% (2,8 miliardi di dollari), contro il 47% del competitor francese e il 29% statunitense.
Il report sottolinea, quindi, come la leggerezza valoriale italiana proprio nel segmento di prezzo – quello luxury – a maggior crescita potenziale nei prossimi anni (+2% annuo da qui al 2028) comporti un fattore di debolezza commerciale che rischia di accentuarsi nel medio-lungo periodo. «Il tema della ricerca di un posizionamento più alto dei vini italiani è tutt’altro che un discorso naif – dice il responsabile dell’Osservatorio Uiv-Vinitaly Carlo Flamini – negli ultimi anni, causa inflazione e pressioni straordinarie sui costi di produzione, una massa enorme di prodotto popular si è spostata quasi per inerzia verso le fasce più economiche della categoria premium, di fatto creando concorrenza verso il basso su questa fascia vitale per le nostre produzioni. E il fenomeno non è destinato a ridursi».
L’avvertimento è chiaro: i vini premium (quelli al centro per non creare false illusioni) sono la categoria che più andrà sotto pressione nel prossimo futuro.
«Per l’Italia – annota l’Osservatorio – gestire questa fase sarà tutt’altro che semplice, visto che le fasce luxury sono presidiate in maniera quasi blindata dalla Francia, ma anche dai vini made in Usa. La differenziazione dei mercati potrebbe essere una strategia da perseguire, ma la redistribuzione verso l’alto della parte più “nobile” dei premium si scontra con il fatto che oggi quei vini sono per il 44% venduti negli Stati Uniti, dove smuovere i price point (soprattutto con i nuovi dazi; ndr) è operazione altamente rischiosa, e gli altri mercati principali (Francia, Uk e Giappone) sono ampiamente presidiati dai francesi».
Insomma, non sarà facile uscire dalla fascia mediana, ma bisognerà lavorarci perché l’unica crescita prevista da qui al 2028 riguarda proprio i segmenti nella parte alta della piramide.
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