Nessuna ricerca sfrenata della ripetizione, si celebra l’imprevedibilità ma con attenzione e correttezza. Niente odori di brett invadenti (e speriamo che passino sempre più di moda), niente replica di sapori che sfidano l’omologazione per omologarsi a loro volta. Non è sempre facile trovare vini sorprendenti, difficoltà che si incontra anche nel mondo “naturale” nonostante la mission di volersi differenziare dal resto del comparto convenzionale, più industriale, più grande (per seguire il Vinitaly iscriviti alla nostra newsletter giornaliera).
Ma ViniVeri, l’evento dell’omonima associazione di viticoltori artigianali, ci ha regalato qualche chicca. Nonostante l’afflusso dei visitatori sia un po’ in calo – la crisi del vino si fa sentire un po’ ovunque, non è solo il caso della manifestazione di Cerea – la selezione all’ingresso rimane buona: la maggior parte dei produttori aderenti infatti propone vini corretti, respingendo l’idea che alcuni palesi errori, brett tra tutti, siano caratteristiche del vino (cit. il presidente Paolo Vodopivec che in un’intervista al Gambero Rosso ha ribadito la linea dell’associazione). Qualche defezione c’è, è innegabile, ma il lavoro fatto negli ultimi anni ha portato a buoni risultati.
E tra le pieghe del ventaglio di “veterani” in assaggio a Cerea, abbiamo incontrato tre bottiglie che meritano di essere assaggiate. Una è una new entry del Consorzio, l’ha portata un ragazzotto marchigiano vestito di nero dal collo in giù, una seconda arriva con la brezza dell’Oceano Atlantico dove un ragazzo francese giramondo produce i suoi vini, l’altra è ormai diventata una certezza: è l’Umbria dei vini artigianali, ormai diventata adulta, rappresentata da uno dei suoi rappresentanti migliori. Jacopo Paolucci, diciamolo, ormai spacca.
E iniziamo proprio con lui e un’intera batteria di vini che è talmente buona che ha reso difficile la scelta. Questa volta rinunciamo a puntare su un suo vino emblematico, il Nero Jacopone che tanto ci era piaciuto a Vignaioli Naturali a Roma nel 2024, lo avevamo conosciuto proprio lì per la prima volta. Così come il profumatissimo Baciafemmine, rosato con stile, o il suo primo metodo ancestrale (2023) che vale eccome, bolla elegante e gusto profondo. Che rimane? Quest’anno il cuore va al Rimacerato di Paolucci, un gran ben vino, uno dei migliori assaggiati a Cerea. Niente cliché di naturale memoria, niente fondi ingombranti, niente aromaticità scontata. Ha carattere, e darlo al Trebbiano spoletino è storia difficile, non essendo un vitigno da effetto “wow”. Vinificato con un lungo contatto sulle bucce (6-7 mesi), fermentazione spontanea (ma fatta bene). Frutta candita, zenzero, un po’ di spezie, una punta di anice. Una meravigliosa espressione moderna di un terroir antico. Finisci l’ultimo sorso e pensi: da Paolucci, ci torno, il Rimacerato, me lo compro.
Dall’Umbria andiamo nelle Marche, altra fucina di talenti interessanti. Trovare nuovi viticoltori che meritano non è un lavoro semplice, in questi anni abbiamo visto come in tanti si improvvisano a fare i viticoltori “naturali”, mettere su cantina è diventata una piccola moda, con spesso risultati disastrosi. Non che aprire un’azienda vinicola comporti poca fatica o costi leggeri, ci vuole una buona dose di coraggio, ma questa non è sufficiente se manca la competenza. Non è il caso di Enrico Vagnoni, il ragazzo “in nero” di cui sopra che ha portato a ViniVeri due annate del suo Bujo. Ci è piaciuto perderci nel suo Shiraz tenebroso, etichetta nera, font elegante. Spezie che ti avvolgono, un’interpretazione del vitigno pura, senza virtuosismi, un passaggio in legno che non si avverte, non monopolizza l’assaggio. Risultato? Eleganza e carattere. L’annata 2021 è fresca e con un bel frutto, la 2022 ancora giovane promette benissimo. Di entrambe, ne vorremmo ancora. Insomma, la nuovissima cantina San Bartolomeo va tenuta d’occhio, questo giovane potrebbe far parlare di sé.
Il terzo stupore è arrivato di fronte al banco presidiato da un ragazzo francese, giramondo per alcuni anni dall’Australia al Canada, che produce vino a pochi chilometri in linea d’aria dall’Oceano Atlantico: Domaine Du Haut Planty si trova a Le Landreau nei pays Nantais patria del Muscadet de Sèvre et Maine e del Melòn de Bourgogne. Quell’aria salina e salmastra nei suoi vini si sente tutta. Vigneti su pendii appena in discesa, composti da terreni per lo più sabbiosi inframezzati da graniti, la brezza marina, tre generazione hanno calpestato quelle colline. Ha iniziato il nonno Couillaud, poi papà Alain ha messo a regime una produzione artigianale e attenta al rispetto del terroir, ora tocca il figlio Erwan. Il vino più divertente della batteria è sicuramente il metodo ancestrale, un esperimento per la cantina stessa, l’apertura è prepotente, con fermezza toglie il tappo a corona e arriva la bottiglia quasi vibra. Leggera inclinatura per non far precipitare il fondo nel bicchiere. Fresco, minerale, salino, un frutto gentile di pesca. Merita anche un vino di punta della piccola azienda: Gwin Evan, molta pera e mela verde grazie al frutto di un vitigno come Melon de Bourgogne, affinamento in cemento sotterraneo per un anno. Un bel vino da mangiare con le ostriche della vicina Bretagna.
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