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Varietà resistenti

I Piwi arrivano per la prima volta al Vinitaly. La sfida più grande? Resistere al pregiudizio

I nuovi incroci resilienti sono pronti a giocare nella Serie A del vino italiano, ma prima bisogna modificare il Testo unico del vino

  • 07 Aprile, 2025

Se non avete mai sentito parlare di souvigner gris, merlot khorus, cabernet cortis o soreli è arrivato il momento di fare la conoscenza della grande famiglia dei Piwi. All’anagrafe pilzwiderstandsfähig (letteralmente resistenti ai funghi), sono quelle varietà ottenute per incrocio con portatori di resistenza alle principali malattie della vite. Come diceva qualcuno, «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». E, davanti al climate change, la viticoltura non fa eccezione.

Obiettivo: meno trattamenti in vigna

Ma c’è di più, come ci spiega Marco Stefanini, ricercatore alla fondazione Edmund Mach di San Michele all’Adige e presidente dell’associazione Piwi Italia nata poco più di un anno fa (ad oggi sono più di 250 i soci): «Le varietà resistenti non sono solo in grado di affrontare meglio i cambiamenti climatici, ma possono arrivare a ridurre fino al 70% i trattamenti in vigna». E questo va a toccare l’altro grande tema del momento: la tanto ventilata sostenibilità.
D’altronde le ultime vendemmie hanno messo a dura prova tutti i viticoltori, soprattutto chi lavora in biologico o biodinamico. Perché, quindi, si guarda ancora con sospetto ai Piwi? «Ignoranza», risponde senza esitazione Stefanini.

Ma guai a confondere il mezzo con il fine, dice Nicola Biasi, enologo frontman della rete “Resistenti – Nicola Biasi” (cui è andato il premio per la vitivinicoltura sostenibile del Gambero Rosso): «Venti anni fa i Piwi esistevano, ma i vini non erano buoni. Oggi le cose sono cambiate. Essere biologici, biodinamici o usare varietà resistenti deve essere il mezzo per ottenere come risultato il miglior vino possibile da un territorio».

Il ritardo italiano sulla Francia

La buona notizia è che la ricerca, negli ultimi anni, ha fatto passi da gigante. E alla prova del calice si vede: la degustazione fatta nella redazione del Gambero Rosso mostra una qualità mediamente alta che consente finalmente ai vini Piwi di entrare a giocare nel campionato principale del vino italiano. La cattiva notizia? A impedire l’esordio in Serie A, ci pensa la legislazione italiana (in questo caso, il Testo unico del vino) che esclude l’uso di queste varietà per vini Dop e Docg. Ma qualcosa si muove e pochi mesi fa è stato presentato un disegno di legge, su iniziativa del senatore Pietro Patton, per dare il via libera.

Anche perché, i competitor internazionali non hanno perso tempo. «La Francia ha inserito le varietà resistenti in due delle sue denominazioni principali: Bordeaux e Champagne (rispettivamente al 10% e 5% – ndr) – spiega Stefanini – Invece, in Italia stiamo ancora a parlarne. Quando tra qualche anno lo Champagne annuncerà al mondo intero di essere la prima denominazione resistente, l’Italia cosa dirà? Che stiamo ancora sperimentando?».

Marco Stefanini, presidente Piwi Italia

Tempi troppo lunghi

Un invito a fare presto. Ma proprio il tempo è l’altro grande ostacolo all’utilizzo dei Piwi. Al momento, infatti, occorrono più di 15 anni per autorizzare una varietà resistente: «Sette, otto anni di ricerca per valutare la bontà dell’incrocio, a cui seguono quattro anni per l’iscrizione al registro nazionale della vite e sei anni per le autorizzazioni regionali. Una volta riconosciuto il nuovo vitigno, infatti, deve essere la singola regione ad autorizzarlo a livello locale». Un iter non esattamente semplificato.

Sono 36 le varietà Piwi registrate in Italia

Ad oggi l’Italia ha registrato 36 varietà resistenti (18 bianchi e 18 rossi), ma sono solo dieci le regioni che ne permettono l’uso: Piemonte, Lombardia, Trentino-Alto Adige, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Marche, Lazio, Abruzzo e Campania. Chiarimento importante: i Piwi non hanno nulla a che fare con gli Ogm, ma sono semplici incroci (dall’80 al 97% di genoma della vitis vinifera) di cui la storia è piena. Un esempio su tutti? A inizio ‘900, in seguito all’attacco della fillossera, fu necessario innestare i vitigni europei sul piede di vite americane per permettere la sopravvivenza della viticoltura.

Piwi al 10% per il Pinot Grigio delle Venezie

Se, quindi, la ricerca ha dato i suoi frutti, ora sta ai Consorzi del vino raccoglierli. Il primo ad averlo fatto è l’ente di tutela delle Venezie, che non solo ha sperimentato sul campo questi vitigni ma ha provato ad inserirli per il 10% nel disciplinare della Doc Pinot Grigio. Per avere l’ok, però, deve aspettare la modifica del Testo Unico del vino di cui sopra.
«Sarebbe la prima volta che i vitigni resistenti entrano dentro ad una Doc – spiega il presidente del Consorzio Albino Armani – Non vediamo argomenti, se non ideologici, per dire no. Per questo invitiamo anche le altre Doc a crederci». L’altro grande Consorzio che ha avviato la sperimentazione è il Prosecco Doc: «Non provarci sarebbe un errore», conferma il direttore Luca Giavi.

Vinitaly: banco di prova per i resistenti

Intanto crescono i produttori che ci credono, come stiamo vedendo a questo Vinitaly dove sono una trentina quelli di Piwi Italia presenti. E per il 2026 c’è già una novità: l’associazione vorrebbe partecipare alla Fiera di Verona con uno stand collettivo. Un chiaro segnale per dire “anche noi siamo pronti a scendere in campo”. In fondo la prima partita da vincere è quella contro il pregiudizio, dove resistere è, ancora una volta, la parola d’ordine.

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