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Di vino in vino

"Mai pensato che il vino fosse naturale, è la più grande sciocchezza che ho sentito". Intervista a Damjan Podversic

L'allievo di Gravner denuncia la standardizzazione nei calici, ma anche nel cibo: "Non si sa più riconoscere le diversità nei sapori”

  • 18 Aprile, 2025

«Per ogni contadino ci sono trenta vendemmie, l’anno prossimo per me sarà l’ultima». Si ritira dalle scene Damjan Podversic, il pupillo di Josko Gravner, ma lo fa con serenità sapendo che Tanita, sua figlia, è una donna combattiva e testarda. «Da tre anni in azienda abbiamo un coach che ci sta preparando al cambio generazionale. La regola è che se nel 2027 non riuscirò a stare zitto, non potrò neppure entrare in cantina».

Podversic: vignaiolo resistente sulla collina di Oslavia

Resistentissimo, inossidabile, la fermezza delle sue parole incarna alla perfezione i principi di solidità alla base dell’azienda che porta il suo nome dal 1988. L’ha creata con gli stenti e fatta crescere tra i venti della controtendenza con quell’idea di vino autentico «che produco solo con le uve della mia terra, la Ribolla Gialla, la Malvasia e il Friuliano. Se fai vino in Friuli è solo così che devi produrlo».
Li coltiva sul cucuzzolo di Gorizia, da quella collina di Oslavia che si incunea tra il Monte Calvario e il Monte Sabotino con le Prealpi Giulie a difendere le sue viti e la costante Bora che, con violenza, soffia imperterrita da nord-est. È da qui che Damjam, appena diciasettenne, ha realizzato quella rivoluzione tanto gentile quanto impattante sul finire degli anni 80. «A quei tempi era più facile vendere un chilo di patate a New York che una bottiglia di vino del Collio». Ma lui, figlio dell’unico oste del paese, aveva il sangue negli occhi e voglia di vita che ribolle: «Giravo con il motorino per i vigneti e sognavo di fare vino».

Il padre spirituale di Damjan: Josko Gravner

Inizia, allora, servendolo ai lavoratori che smontavano dalle fabbriche alle sei: «Per mio padre il vino andava venduto a mille lire, ma non un litro, dieci litri». Poi sotto le armi acquista il primo vigneto: uno dei terreni abbandonati sul finire della Prima Guerra mondiale sul Monte Calvario. Ci vedeva un potenziale, in quei campi dove ci passavano le giornate pure Josko Gravner, Mario Schioppetto e Nicola Manferrari, anche loro poco più che ventenni. E da lì a poco, lì passò pure Luigi Veronelli.
Sogna Damjan, sogna e sognando incontra quello che per lui è stato «un padre spirituale, Josko Gravner: lui mi ha insegnato la filosofia prima ancora di coltivare un filare».

La “scuola” di Oslavia, terra di confine

Così in quella scuola di Oslavia, terra di confine a un tiro di schioppo dalla Slovenia, quel manipolo di giovani inizia a scrivere le prime pagine di una storia del vino che, altrimenti, sarebbe andata persa. Perché se di vini macerati si parla lo si deve a loro, ostinati e resilienti produttori, che hanno riportato dalla memoria dell’oblio quel vino antico delle loro terre, prodotto da infinite giornate di macerazione attraverso il vitigno simbolo del Friuli: la Ribolla Gialla.
«Di schiaffi ne ho presi, porte in faccia pure», ricorda. Ma oggi la sua è una realtà solida e dopo 28 instancabili vendemmie la Banca del Vino di Pollenzo, in una degustazione organizzata all’eno-panetteria di Stefano Pagliuca a Melito di Napoli, celebra i suoi sogni in un viaggio tra gli energici ed emotivi vini a base di Malvasia, Chardonnay e Friuliano, riunite nell’etichetta Kaplja, e nel velluto della sua Ribolla Gialla.

Una storia da raccontare: a lezione dalla terra

Damjan non ha mai improvvisato goffi balletti per rimanere sulla pista da ballo di un mercato che voleva e chiedeva l’antitesi dei suoi vini. «Erano gli anni dei vinoni, tutto frutto e concentrazione», sorride e ripercorre i suoi passi. «All’università di enologia mi avevano insegnato cosa “mettere” nel vino, non “come fare” il vino». Così, sin da subito, ripone i libri in un vecchio scatolone (mai più aperto!) e affonda le mani nella terra, senza mai tornare indietro.
«Sono tre gli ingredienti per fare un grande vino: la terra, la specie e la maturazione del seme», afferma deciso.

“Fa più danni l’uomo che il surriscaldamento globale”

La terra è la sua, quella del Collio goriziano, vocata per natura alla frutticoltura: «Bisogna impiantare dove nei periodi estivi non serve irrigare». I suoi vigneti, situati tra i 90 e i 180 metri sul livello del mare, sono la sintesi perfetta tra strati alternati di marna ed arenaria. È la Ponca o flysch, un terreno molto ben drenato, in grado di restituire alle radici più profonde l’umidità accumulata e di resistere alla siccità. Su questo terreno, da sempre, sono cresciute le viti di Ribolla, Malvasia e Friuliano, unici vitigni che per Damjan vanno piantati qui, nella sua terra: «Una scelta legata ai paralleli. Piantare Nerello Mascalese in Borgogna sarebbe altrettanto stupido quanto piantare Pinot Nero in Sicilia».

L’idea di un destino scelto dalla natura lo porta a «lasciar andare» anche rispetto al cambiamento climatico: «Fa più danni l’uomo quando sbaglia nella gestione del suolo che il surriscaldamento globale». Anzi, in totale controtendenza rispolvera pure i vecchi “protocolli” dei contadini di un tempo: «Sono ritornato a vendemmiare nei tempi in cui vendemmiava mio nonno, tra l’ultima decade di settembre e la prima di ottobre».

“Non condiviso la moda degli Orange: alla fine tutti omologati”

Così fino a 140 metri sul mare si impianta Friuliano e Malvasia Istriana e si lascia sul cucuzzolo spazio ai filari di Ribolla che hanno bisogno di maggiore irradiazione solare: «Se viene piantata in pianura perde di personalità ed è per questo che ci ritroviamo a bere, poi, vini confusi, che perdono la loro identità». Ma ce l’ha anche con le macerazioni mal gestite: «Quella moda di fare gli orange wines che porta ad annullare l’identità di un vitigno e di un territorio, con quegli odori che, alla fine, diventano tutti omologati». Orange, un aggettivo non adatto alla sua filosofia: «Il vino bianco dovrebbe sempre essere dorato con sfumature verdi. L’aranciato, è solo un sinonimo di stanchezza del vino, a meno che non ci sia un vitigno rosso all’interno, come il Pinot grigio».

“Il vino (non) è naturale, è tecnica”

Sui “naturali”, poi, non ha dubbi e non fa sconti a nessuno: «Non ho mai pensato che il vino fosse naturale, è la più grande sciocchezza che ho sentito. Dio ha creato il seme, la natura poi lavora su questo seme; il vino, però, è tecnica: dalla vendemmia alla pigiatura è solo frutto dell’uomo. La vite non lo sa che farà il vino: spetta all’uomo, se vuole fare un vino buono, sapere quando i tempi sono maturi per la vendemmia». E di vendemmie con maturazioni perfette, secondo Damijan, ce ne sono una ogni due anni: per questo molti dei suoi attuali quindici ettari vitati finiscono comunque per rimanere in panchina. «Abbiamo un potenziale di produzione di circa sessantamila bottiglie, ma ne ho sempre prodotte solo la metà», spiega. A conti fatti, quindi, quasi una pianta e mezzo per produrre una sola bottiglia di vino. «Ho imparato respirando, camminando tra i filari; ho sbagliato tante volte perché pensavo di sapere, mi sono rialzato e ho sbagliato di nuovo, poi ho vinto e ho sbagliato ancora».

Salinità, croccantezza, tensione e diversità

Oggi, arrivato alla ventottesima vendemmia, la ricetta per sommi capi sembra averla, però, scritta: il vino deve avere salinità, croccantezza, tensione e diversità. «Guai a non sentire il sale nel mio vino: non sarebbe della mia terra. Il vino qui si deve masticare, con le parti acide che devono aiutare». E soprattutto mai un’annata uguale all’altra.
La sua è una sfida che si ripete ogni anno nei gesti, nelle vendemmie manuali, nelle lente fermentazioni e nelle lunghe macerazioni, nelle vecchie botti per affinare, nell’imbottigliare senza filtrare «ché impoverisce il vino». Oggi Damijan arriva a produrre sei etichette: gli assemblaggi di Kaplia e Prelit, i mono varietali di Ribolla Gialla, Malvasia, Pinot Grigio e l’etichetta Nekaj di solo Friulano: circa 38mila bottiglie. «Le riesco a vendere solo a chi apprezza la bontà del mio vino». Un vino dal gusto altalenante, diverso di anno in anno. «Profuma e ha il sapore della mia terra, che in quanto vivente non può sempre essere uguale a se stessa», spiega. Così, a chi si lamenta dicendo che i suoi vini sono difficili, lui risponde con un NO a caratteri cubitali.

Un “no” netto, deciso contro l’omologazione

Un NO all’omologazione: «Il problema è che si sta perdendo il gusto, il piacere della scoperta del gusto. Ci si assesta sul semplice, sul banale… Ci si ferma in superficie e quando trovi qualcosa di gustoso, di saporito, non ti piace, perché non sai riconoscerlo». Una considerazione che vale anche per la pizza, per il formaggio, per le carni. «Lo strudel – sorride lui – dovrebbe sapere di cannella o di zucchero, invece trovi al supermercato tutto tranne che il vero strudel: ma se ti abitui a quel gusto pensi che sia quello il vero sapore. Per questo i giovani sono sempre più lontani dal sapore “dell’autentico”: nessuno li ha istruiti. Vanno educati altrimenti il mercato del vino prenderà una deriva».
La trentesima vendemmia del contadino Damijan è vicina, ma i suoi occhi da ragazzino ancora sognano. «Il vino è come un essere vivente che vedi crescere», sorride. È come la sua Ribolla Gialla, forgiata di un equilibrio d’insieme sottile e avvolgente. È un sorso quasi magico la 2020 che sembra racchiudere tutti i quarant’anni di storia della sua cantina e ha il confortante retrogusto di un presente che è già un futuro solido, negli occhi e nelle mani di sua figlia Tanita.

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