Di fatto, lo Champagne è nato nel 1850. Perché? È il primo anno nel quale la Regione produce più vini con le bollicine rispetto ai fermi. È da questo momento che inizia la corsa dello Champagne, trasformando così il volto vitivinicolo della Champagne e rendendolo quasi interamente ‘spumeggiante’. Ci vorrà più di un secolo e mezzo per riportare in auge i vini fermi, sebbene più in termini qualitativi che numerici. Ma andiamo con ordine.
La produzione di vino in Champagne si è consolidata intorno al VIII secolo con le abbazie, da quella di Saint-Thierry fino a quella di Hautvillers, poi salita alla ribalta mondiale grazie a Dom Pérignon. Tuttavia, bisogna aspettare il 29 maggio 1328 per vedere questi vini conquistare definitivamente la popolarità. La data segna l’incoronazione del Re Filippo VI (tuti i Re di Francia sono stati incoronati nella cattedrale di Reims) e, debuttando in quel momento i vini di Champagne alla corte del sovrano, iniziano la loro ascesa in termini di popolarità. Diventano talmente gettonati, questi vini (fermi) di Champagne, da rivaleggiare con quelli di Borgogna sotto Luigi XIV, che amava particolarmente quelli di Aÿ. Si dice che poi il Re li abbia abbandonati a favore di quelli di Beaune unicamente per la sua gotta, su consiglio dei medici.
A proposito di Aÿ, era certamente il villaggio più noto e apprezzato per i vini di Champagne grazie alla sua viticoltura millenaria, ma era costantemente insidiato da Bouzy, che godeva di pari reputazione grazie alla qualità dei suoi rossi. Bisogna tener presente che all’epoca la “denominazione” Bouzy non si riferiva al singolo villaggio, ma inglobava anche la confinante (sconosciuta, allora) Ambonnay, mentre oggi sono due Grand Cru e Ambonnay è assurta a riferimento della Montagne de Reims.
Bene, ma quali erano questi vini? Sparite molte varietà minori con la grande gelata del 1709, la Champagne si lega al Pinot Noir, al Gamay e al Fromenteau (Pinot Gris), mentre le varietà bianche si diffonderanno oltre un secolo più tardi. Da ricordare che i vari vitigni erano complanté, quindi erano presenti insieme nella stessa vigna: così facendo, ogni annata permetteva di salvare il raccolto: se soffriva un vitigno, magari risultava migliore un altro.
Da queste uve, inizialmente nascevano dei veri e propri clairets, per diventare dei rossi maggiormente degni di questo nome da metà del XVIII secolo. Va detto, tuttavia, che il clima settentrionale della Champagne ha sempre penalizzato la Regione per quanto riguarda i vini rossi, questo a causa dell’impossibilità di ottenere un colore più intenso. È proprio il colore a limitare il successo di questi vini, che rimangono legati a una tonalità simile agli attuali rosé de saignée, perdendo così il confronto con la Borgogna.
Va detto che nel XVIII secolo la Champagne tentò anche la strada dei vini bianchi, o meglio, dei vins gris, in quanto fatti con uve nere (all’epoca preponderanti, come abbiamo appena visto) vinificate in bianco, da cui una minima cessione di colore. Ebbene, questa strada fu tentata per poco più di una cinquantina d’anni, tra il 1720 e 1780, e soltanto in quest’ultimo periodo raggiunsero il 40% di tutti i vini prodotti, poi persero terreno a favore dei rossi.
Il periodo di maggior successo dei vini rossi di Champagne è, come intuibile, la prima parte del XIX secolo e un testo di André Jullien (vignaiolo e scrittore, esaltato poi da Hugh Johnson come “pietra angolare della scrittura moderna sul vino”) recitava: “[i rossi] di Verzy, Verzenay, Mailly, Saint-Basle, Bouzy e Clos de Saint-Thierry tra i migliori vini di Francia, soprattutto nelle annate in cui la temperatura è molto calda e secca. Questi vini andrebbero degustati con rispetto e curiosità storica, ricordando che sono la sopravvivenza di tempi antichi”. Il che testimonia inconfutabilmente la qualità di questi vini.
E poi? Inizia il declino per via del sempre maggiore successo delle ‘bollicine’ e, anzi, negli anni ‘30 del XX secolo la produzione crolla, complice anche la crisi del 1929. È tuttavia in questo periodo (1936) che si decide di dare identità a questi vini, chiamandoli Vins Originaires de la Champagne viticole, che diventeranno Vins Natures de Champagne nel 1953, quando la produzione darà segni di ripresa con 1,2 milioni di bottiglie (in quell’anno di Champagne se ne fecero poco più di 42 milioni di bottiglie). La produzione continua a crescere fino ai 4,2 milioni di bottiglie del 1978, quindi quattro anni dopo il riconoscimento della AOC Coteaux Champenois. Eppure, al tramonto del XX secolo, nel 1999, i Coteaux Champenois erano quasi scomparsi: se ne facevano appena 235mila bottiglie, con un calo impressionante iniziato già nel 1982 e lo stesso CIVC a dubitare del futuro di questi vini…
Perché? Il nome Champagne era sinonimo di bollicine: nel 1970 lo Champagne rompe il muro dei 100 milioni di bottiglie e da quel momento la sua corsa non si ferma più, posizionandosi stabilmente oltre i 300 milioni di bottiglie alla fine degli anni ’90.
I pochi Coteaux Champenois sopravvissuti e degni di nota erano (lo sono tuttora) erano lo storico La Côte aux Enfants di Bollinger e il Cumières Rouge di Geoffroy, ma proprio nel 1995 nasce l’Ambonnay Rouge di Egly-Ouriet, oggi ritenuto all’unanimità il migliore, capace di rivaleggiare con i grandi rossi di Borgogna e invecchiare magnificamente. Passati alla storia già in quegli anni, invece, il rosso di Laurent-Perrier e il bianco di Ruinart.
Pertanto, la AOC Coteaux Champenois è nata il 21 agosto 1974. Il disciplinare – che ha le stesse regole dello Champagne salvo naturalmente alcuni dettagli della vinificazione e della messa in commercio – li definisce “vini fermi (vins tranquilles), bianchi, rossi o anche rosati, prodotti nell’area Champagne”.
Tra le differenze con lo Champagne che vale la pena di ricordare ne ricordiamo sei. La pressatura delle uve si possono utilizzare presse anche con capacità inferiore ai 2.000 Kg; la malolattica è obbligatoria nei rossi; il residuo zuccherino deve essere inferiore ai 3 g/l. L’élevage minimo avviene fino al 15 agosto successivo alla vendemmia, mentre la commercializzazione non può avvenire prima del 15 ottobre successivo alla vendemmia. Ultimo dettaglio non secondario: non si può riportare in etichetta la menzione Grand Cru o Premier Cru.
Rimane, comunque e come detto, una denominazione ‘minore’, che vive all’ombra della più nota e celebrata AOC Champagne. Bisogna aspettare il XXI secolo per vedere i Coteaux Champenois tornare alla ribalta. Questa ‘nouvelle vague’ non è fortuita, ma dovuta al nuovo ciclo climatico che sta vivendo la Regione: c’è finalmente la maturità necessaria per fare dei vini solidi e strutturati. Così oggi maison e vigneron hanno letteralmente riscoperto i Coteaux Champenois, con i rossi da Pinot Noir a farla da padroni, i rossi da Meunier a rappresentare una bellissima sorpresa, soprattutto per il loro tannino meno potente, e i bianchi che non sono più mosche bianche, ma una bella realtà con la quale vale la pena confrontarsi. In teoria esisterebbero pure i rosati, ma al momento ce ne solo solo due, a quanto ne sappiamo: quello fatto da Régis Poissinet, che firma anche due bianchi (uno da Chardonnay e uno… da Pinot Noir vinificato in bianco come lo champagne. E Anche Jean-Baptiste Geoffroy ha fatto un Coteaux Blanc da Meunier, e ricordo che quando gliene chiesi il perché, mi rispose «per divertimento».
Ecco, sebbene abbiano vissuto una rinascita, i Coteaux Champenois restano una nicchia. Per una serie di motivi. In primo luogo per farli, bisogna sacrificare parte delle uve destinate allo Champagne. Lo spiega bene Jean-Baptiste Geoffroy: «Bisogna capire che tutto viene dichiarato come Champagne e poi i lotti vengono declassati per ottenere Coteaux Champenois in base alla qualità». Hanno un elevato costo di produzione che si riflette inevitabilmente sul prezzo finale. Che va così a competere con quello di denominazioni più consolidate per quanto riguarda sia i rossi, sia i bianchi. E rappresentano ancora una sfida, soprattutto i rossi. «Molti suoli della Champagne – secondo Claude e Lydia Bourguignon – sono adatti alla produzione di vini rossi per via dell’importante presenza di argilla, tuttavia questi suoli sono carenti di ferro, così, con densità inferiori ai 10.000 ceppi per ettaro questi vini sono carenti di colore. In passato, invece, con densità di 50.000 ceppi per ettaro (le “vigne en foule” impiantate col metodo del “provignage”, cioè con l’interramento di un tralcio, ndr), si faceva produrre un solo grappolo alla pianta, così questo aveva caratteristiche diverse di maturazione…». Da appassionati, li troviamo molto interessanti e crediamo che almeno una volta vadano provati. Ma ricordandosi sempre, quando si approccia a loro, di essere di fronte a vini fatti in Champagne, una Regione con un suolo e un clima molto particolari. Quindi, lasciate da parte i paragoni con i vini di Borgogna. Non hanno senso.
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