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Scenari

Manuale di resistenza per affrontare la crisi del vino: in vigna, in cantina e sui banchi di scuola

Nuovi modelli e nuovi consumatori, nuove sensibilità e nuovi valori: cambia il mondo, deve cambiare anche il vino. Ecco come resistere...

  • 06 Aprile, 2025

Neo-salutismo, economia, sfide ambientali, nuovi stili di vita: il vino deve cambiare. Per il futuro servono formazione e nuove strategie in campo, in cantina e sui mercati. Parole chiave: leggerezza e biodiversità.

È la fine del vino o è un nuovo inizio

È la fine del vino come lo conosciamo? Oppure è un nuovo inizio? Se lo chiedono tutti in questi mesi di grande incertezza, a cavallo un 2024 da dimenticare e un 2025 che, tra rischio dazi Usa e consumi interni che continuano a rallentare, potrebbe andare anche peggio. «È ancora presto per parlare di crisi strutturale – spiega Alberto Mattiacci, docente di marketing e business dell’Università La Sapienza – ma di certo è in atto un cambiamento epocale: siamo passati da una fase in cui il vino era raccontato solo come un prodotto positivo e senza ombre all’eccesso opposto». Dopo la carne, i latticini e persino l’olio extravergine d’oliva – al quale il Nutriscore proposto da alcuni paesi UE poteva dare il colpo di grazia – lo zelo salutista di una parte di istituzioni, media e consumatori ha travolto anche il nettare di Bacco, sommandosi a cambiamenti politici, sociali ed economici, oltre che all’altra crisi, ovvero quella climatica, che comporta riduzioni di volumi, aggravi di costi e risultati nel bicchiere spesso diversi da quelli desiderati.

Colpe e ritardi di chi produce vino

Certo, chi produce vino non è senza colpa: «Il problema è stato pensare che il bengodi durasse per sempre e che si potesse continuare a mettere qualsiasi cosa dentro a una bottiglia e vendere a qualunque prezzo», suggerisce Mattiacci. Nel mezzo di questa bolla, gli addetti ai lavori hanno spesso trascurato l’esigenza di una formazione a tutto campo, che ora, invece, si rivela indispensabile per superare l’impasse. «Chi saprà creare davvero creare valore ne uscirà indenne, gli altri no». E allora la rivoluzione del vino 2.0 passa per un ripensamento di competenze e strategie che parte da vigna e cantina e arriva al marketing, alla comunicazione e, se occorre, allo sviluppo di nuovi prodotti. La viticoltura è l’ambito in cui si è rimasti meno a guardare. L’Italia può contare su istituti di ricerca di eccellenza e consulenti agronomici richiesti in tutto il mondo che da tempo lavorano su metodi per contrastare la crisi climatica in vigna.

Attilio Scienza: il concetto di territorio vocato

A fronte di previsioni pessimistiche che parlano di uno stravolgimento ancor più drastico del clima nel prossimo ventennio, ci si chiede se esista o meno un modo per garantire che i territori oggi vocati all’eccellenza rimangano tali. «La vocazione non è qualcosa di assoluto e statico: cambia nel tempo – risponde Attilio Scienza, professore emerito dell’Università di Milano e curatore del Master “Il futuro del vino” di Gambero Rosso Academy – in futuro sarà più connessa a ciò che c’è attorno alla vite. La vite si è sviluppata per secoli come liana legata ad altre piante arboree; interagisce attraverso scambi di sostanze volatili con l’ecosistema circostante e sviluppa resistenza luminosa, termica e parassitaria.  La presenza di un bosco o di altre piante arboree nelle sue vicinanze ha un effetto mitigante molto importante. Per fronteggiare il riscaldamento globale e produrre vini in linea con la richiesta dei consumatori di maggiore leggerezza, diventa essenziale favorire in ogni maniera possibile la biodiversità». L’altro enorme problema è la siccità: «La distribuzione delle piogge sta cambiando: quelle torrenziali fanno sì che l’acqua scivoli via e sono spesso alternate a lunghi periodi secchi. La soluzione viene dai portainnesti che, se scelti bene, non sono solo capaci di incrementare l’efficienza idrica, ma possono addirittura migliorare la qualità dell’uva, contribuendo alla produzione di sostanze che evitano i danni da carenza di acqua».

Sostenibilità & ambiguità

Intorno all’idea di sostenibilità, imprescindibile di questi tempi, c’è tanta ambiguità: pratiche come lotta integrata, biologico e biodinamica sono difficilmente discernibili da parte del consumatore. Peraltro, non bastano più a garantire il rispetto assoluto della natura, perché metalli pesanti come rame e zolfo – utilizzati contro peronospora e oidio e ammessi in qualunque regime – hanno un impatto tutto meno che trascurabile sul serio.

 

L’opportunità dei nuovi vitigni resistenti

Una soluzione per una viticoltura a residuo zero potrebbe essere l’utilizzo di vitigni resistenti: i Piwi, creati dall’incrocio di vitis vinifera con altre specie, ma anche quelli modificati con la tecnologia CRISPR. «Con questa tecnica otteniamo varietà che sono le stesse coltivate da sempre, ma che, grazie alla rimozione o sostituzione di alcuni geni, hanno una resistenza molto maggiore agli agenti nocivi», spiega Riccardo Velasco, direttore del CREA, in un intervento al Valdarno di Sopra Day. L’Italia è all’avanguardia nella ricerca in questo campo, anche se diverse associazioni di ambientalisti, consumatori o coltivatori si oppongono ed equiparano le nuove tecniche genomiche con gli organismi geneticamente modificati – in realtà diversi perché ottenuti con l’aggiunta di geni da specie diverse – reputando ogni sperimentazione immorale e potenzialmente incontrollabile. «Chi è contro pensa che ci possa essere una contaminazione con l’ambiente circostante – afferma Maurizio Gily, uno dei più importanti agronomi italiani – ma una cosa del genere può avvenire al massimo laddove c’è impollinazione, non di certo nel caso di una pianta arborea».

 

Quale cantina per il vino 2.0

A una nuova viticoltura deve corrispondere un nuovo modo di pensare la cantina. Negli ultimi anni, sul banco degli imputati sono comparsi molto spesso gli enologi, visti dai consumatori più disamorati come machiavellici sofisticatori che, seguendo protocolli invasivi, foraggiano la cosiddetta “omologazione del gusto”. Una visione ribaltata rispetto a vent’anni fa, quando assoldare il consulente giusto sembrava sufficiente per ottenere rapido successo.
Oggi non è raro imbattersi in aziende che fanno del non avvalersi di un enologo un vanto. Ma la risposta a certi eccessi non può essere l’esaltazione dell’approssimazione, che peraltro rischia di avere esiti non molto diversi, visto che non c’è nulla di più omologante del difetto organolettico.

Il nuovo ruolo dei nuovi enologi

Piuttosto l’enologia deve essere meno correttiva e più interpretativa: «Fino a ora, si è spesso lavorato per compartimenti stagni: chi stava in vigna si limitava a produrre uva e in cantina ci si occupa solo della trasformazione – spiega Mattia Filippi, titolare di Uva Sapiens, uno dei team italiani che offrono consulenze alle aziende nel segno della sinergia tra viticoltura ed enologia – dobbiamo inaugurare un nuovo umanesimo del vino, che ci permetta di superare la fase medievale della sovrapproduzione e della troppa industrializzazione, per arrivare a un’enologia che abbia come obiettivo l’espressione all’identità del luogo, la spontaneità e la digeribilità, richieste dai consumatori nel vino come anche nel cibo». Questo processo si allinea con la ricerca della leggerezza: «Non servono forzature per produrre vini contemporanei: basta avere una conoscenza perfetta dell’uva di partenza. Ed è per questo che, dall’Alto Adige a Pantelleria, passando per Napa Valley, seguiamo tutta la filiera, arrivando all’occorrenza anche a supportare la comunicazione, perché basarla su elementi concreti e verificabili è la strategia vincente».
Per Alberto Mattiacci, marketing e management del vino sono quasi all’anno zero: «Non è un’industria di aziende, ma di partite Iva. Mancano competenze: molti produttori non sono capaci di fare mercato. E non esiste in nessun altro settore l’idea di limitarsi a realizzare un prodotto e pensare che si venda solo».

Una nuova formazione: economia e management

Insomma, avere un esercito di tecnici ineccepibili non basta: in futuro ci dovranno essere più figure con formazione economica e manageriale al timone delle aziende, che sappiano posizionare il vino e studiare i mercati, invece di lasciarsi trascinare dalla corrente. Oltre alle difficoltà individuali esiste anche un problema collettivo: lo spirito anarcoide italiano si traduce in una difficoltà enorme nel veicolare un’immagine chiara di prodotti e territori. «I francesi sono maestri in questo – sottolinea Mattiacci – si veda l’esempio dello Champagne. Loro hanno incentrato tutti i loro sforzi sul fare in modo che berlo diventasse un atto celebrativo: organizzano eventi e campagne pubblicitarie, hanno inventato il sabrage, instillano anche nella mente del profano l’idea che nella bottiglia c’è qualcosa di speciale. Noi dovremmo fare lo stesso».

Naturali e dealcolati: nuovo approccio

Sui giovani, che secondo alcuni non bevono più vino, la prospettiva più interessante arriva da Danielle Callegari, referente per Wine Enthusiast e tra le voci più importanti per il vino italiano Oltreoceano: «Oltre a essere degustatrice sono anche docente di storia all’Università e ogni volta che racconto ai miei studenti dell’altra professione, si dimostrano molto incuriositi. Dicono che sapere qualcosa sul vino è necessario per sentirsi adulti». Quindi, più che sugli appena maggiorenni, sarebbe giusto concentrare gli sforzi su chi è in una fase di transizione? Probabilmente sì, ma un modo per anticipare l’età dell’approccio esiste: è portare il vino fuori dall’accademia e dai contesti formali associati all’età adulta. I tanti wine bar aperti negli ultimi anni hanno già avviato questo percorso: sedersi al bancone è un modo conviviale e disimpegnato di imparare qualcosa; gli eventi – specie quelli del vino naturale, più scevri da rituali – sono l’altro catalizzatore di consumatori giovani che preferiscono il dialogo e il confronto diretto allo studio in aula.

Prodotti alternativi per il mercato del vino

Difficile pensare a un’industria del vino del futuro senza prodotti alternativi, che non entrino in conflitto con quelli tradizionali ma permettano di raggiungere nuovi consumatori. Da quest’anno la dealcolazione in Italia è diventata finalmente una possibilità, nonostante le ritrosie da parte della maggioranza dei produttori. Tra di loro, c’è chi si chiede che senso abbia portare avanti una fermentazione e poi rimuoverne il risultato: così non si ottiene un semplice succo d’uva? La risposta la dà Martin Foradori Hofstatter, produttore altoatesino e pioniere del no e low con la sua azienda Dr. Fischer in Germania: «In Italia, questa categoria è ancora agli inizi e regna molta confusione, anche perché diversi succhi d’uva, almeno a livello di packaging, vengono presentati come vini dealcolati. Il costo di produzione dei succhi d’uva è significativamente inferiore». E inferiore è anche la qualità organolettica: «Tant’è che per produrre vino dealcolato devi partire da una materia prima eccellente», spiega Foradori. Un nodo importante è quello delle barriere d’ingresso: dealcolare è un processo molto costoso che richiede investimenti sostenibili solo dai grandi gruppi. Ma, se il mercato crescesse, potrebbero emergere soluzioni come quelle adottate per la spumantistica: «Sono convinto che, presto o tardi, alcune aziende offriranno servizi di dealcolazione per conto terzi, permettendo così anche alle realtà più piccole di adattarsi alle esigenze del mercato». C’è anche un altro problema: l’alcol è il principale schermante dall’ossidazione. «Non si prestano sicuramente per le lunghe conservazioni in cantina» ammette Foradori. «Il rischio – gli fa eco Mattia Filippi – è che, non avendo longevità, rimangano commodity con una data di scadenza, come tante altre bevande». Dunque i produttori di cosiddetti fine wines possono dormire tranquilli: il vino pregiato del futuro sarà sempre alcolico. Ma questo non significa che la tipologia non possa avere un senso in alcune fasce: del resto non tutti i vini “tradizionali” sono fatti per durare trent’anni!

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La più autorevole guida del settore dell’enologia italiana giunge quest’anno alla sua 37sima edizione. Vini d’Italia è il risultato del lavoro di uno straordinario gruppo di degustatori, oltre sessanta, che hanno percorso il Paese in lungo e in largo per selezionare solo i migliori: oltre 25.000 vini recensiti prodotti da 2647 cantine. Indirizzi e contatti, ma anche dimensioni aziendali (ettari vitati e bottiglie prodotte), tipo di viticoltura (convenzionale, biologica, e biodinamica o naturale), informazioni per visitare e acquistare direttamente in azienda, sono solo alcune delle indicazioni che s’intrecciano con le storie dei territori, dei vini, degli stili e dei vignaioli. Ogni etichetta è corredata dall’indicazione del prezzo medio in enoteca, delle fasce di prezzo, e da un giudizio qualitativo che si basa sull’ormai famoso sistema iconografico del Gambero Rosso: da uno fino agli ambiti Tre Bicchieri, simbolo di eccellenza della produzione enologica. che quest’anno sono 498.

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