Sebbene da qualche anno in Puglia si stia lavorando con molta attenzione per produrre bianchi sempre più precisi e identitari, anche andando a valorizzare alcuni vitigni quasi dimenticati (vedi alla voce verdeca e bombino bianco), l’anima della regione rimane rossista. Certamente è una questione di tradizione, ma il successo che alcuni vitigni rossi autoctoni hanno riscontrato in questi ultimi decenni di certo spinge i produttori a puntare sulle varietà a bacca nera.
Tra i vitigni autoctoni pugliesi, il primitivo è quello che può contare su una maggiore superficie vitata. Il nome deriverebbe dalla sua precocità di maturazione. Viene coltivato in buona parte della regione ma i suoi territori d’elezione sono certamente le alture calcaree di Gioia del Colle e le province di Taranto e Brindisi dove dà vita alla Doc Primitivo di Manduria.
Il negroamaro è l’altro grande campione regionale, uva di antichissima origine, forse tra le prime importate dai coloni greci. Anche il nome è oggetto di discussione: alcuni ipotizzano che il termine “amaro” stia a indicare la potenza e la fittezza dei tannini; altri lo farebbero derivare dal greco antico amauròs, che significa “scuro, nero”, quindi come a dire “nero, nero”. Il vitigno una volta era diffuso in diverse zone del sud-Italia: oggi perlopiù è coltivato nelle province di Brindisi e Lecce.
Tra quelli che potremmo definire gli “outsider”, guadagna sempre più spazio anche la malvasia nera, uva di solito utilizzata per i tagli, ma che vinificata in purezza è in grado di dare risultati sorprendenti. Ovviamente la palette ampelografica non si esaurisce con queste tre varietà: vale la pena ricordare anche il bombino nero, il nero di Troia, l’irresistibile susumaniello in compagnia di altre uve presenti anche in altre regioni (montepulciano, sangiovese, aglianico soprattutto).
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