Nel suo percorso lavorativo Valerio Capriotti ha accumulato esperienze in grandi ristoranti e gastronomie d'autore, si è mosso nel mondo del vino come nella formazione di sala. Oggi ha trovato la sua dimensione a Roma, da Enofficina, un'insegna di quartiere con cui costruire una proposta di misura, concreta. Una versione del lavoro in cantina e in sala con i piedi per terra, lontano da annunci roboanti ma più vicino a una quotidianità che è quella che tutti noi viviamo.
Valerio Capriotti, Enofficina è un'enoteca di quartiere. Come ci si trova in questa dimensione?
Facciamo in modo di far gioire i nostri ospiti, con una bella mescita, etichette buone e a un buon prezzo.
Come selezionate i fornitori?
Sono quasi tutte aziende che conosciamo da tempo con cui abbiamo rapporti diretti, abbiamo poche distribuzioni, anche per quanto riguarda i vini stranieri. Abbiamo vigneron francesi o tedeschi, per esempio. Le grandi maison di Champagne non credo le prenderemo mai, preferiamo il piccolo manipulant che dà qualcosa di diverso. Ma è sempre tutto alla portata di tutti.
Niente mostri sacri?
No, non abbiamo grandi vini per come vengono normalmente intesi, ma buoni vini che pesano meno.
La cantina non ne risente?
Ora è tempo di cantine più snelle e agili, per fare una grande carta non servono per forza Krug e Sassicaia. Con il capitale che serve per certe etichette ne prendiamo 3 buone e facciamo contenti i nostri ospiti.
Avete una clientela principalmente di quartiere, con molti habitué. È cambiata la fruizione del vino nel tempo?
Se parli delle ultime settimane ti dico di sì: con il nuovo emendamento la gente beve meno, il famoso bicchiere della staffa non se lo fa, a malincuore, e lo dice apertamente. Anche se per certi versi non è cambiato nulla nei fatti (come più volte dichiarato dal Ministro Salvini e come conferma anche Riccardo Cotarella presidente di Assoenologi, ndr), al momento si sente tanto l'impatto del nuovo codice della strada, speriamo si alleggerisca perché è un problema (come espresso da importanti uomini di sala).
Invece rispetto a qualche anno fa?
Rispetto a qualche anno fa le cose sono molto cambiate: c'è più competenza da parte dell'ospite ed è uno stimolo per saperne di più e non farci trovare impreparati, poi molti prima parlano di vino in maniera fluente e riescono a descriverti quel che vogliono in modo chiaro. Lo trovo più divertente anche perché aumentando la competenza si sono allargate anche le possibilità di scelta: ci sono palati sono più abituati, hanno cominciato a bere cose diverse rispetto a un tempo. Ogni tipologia di vino ha segnato un'epoca.
Questa che epoca è?
Secondo me è il tramonto dell'onda dell'orange e del naturale, diciamo che c'è una risacca del vino buono.
E il vino naturale non è buono?
A volte il termine può essere fuorviante. Per me è importante che il vino sia eticamente fatto bene, che ci sia un pensiero indipendente da parte del produttore, che sia sì naturale, ma naturalmente buono, naturalmente fatto bene.
Quindi quale è la direzione?
Si sta un po' tornando a un vino che forse regala più identità, del territorio e del vitigno, si sta tornando all'importanza dei territorio che è quello su cui io sbatto la testa. È proprio la territorialità che disegna una carta dei vini.
E con i vini naturali non c'è territorialità?
Su certi vini orange ultimamente si sono perse di vista la territorialità e le caratteristiche del vitigno. Si sono tolte le peculiarità. Per noi è più importante che esca il nome e cognome del contadino, quello che lavora in vigna.
Eppure tanti produttori di vini naturali...
Abbiamo visto tanti ragazzetti che facevano altro e hanno cominciato a fare vini naturali e non filtrati: ti dicono non ho lavato la botte, non ho pulito i filtri. Ma quello è un vino sporco non un non filtrato.