Il vino fa bene o fa male? Sembra proprio uno dei quesiti a cui risponde Dario Bressanini con un suo recente libro, ottimo come sempre. Ma la questione che sottintende la domanda, anche se chi la pone spesso ne è ignaro, riguarda cosa vogliamo dire quando affermiamo che una cosa “fa bene”. E se per “fare bene” si intende avere effetti positivi superiori agli effetti negativi, per il nostro corpo e la sua salute intesa come assenza di malattia, allora non ci sono dubbi di sorta, in ambito scientifico: il consumo di alcolici non è mai consigliato. Il vino è un alcolico e quindi non ci vuole Aristotele per fare sintesi tra premessa maggiore e premessa minore.
Il vino fa buon sangue? Spoiler: no!
Tuttavia, le cose non sono semplici come ci piacerebbe. E qui si apre probabilmente la parte più interessante di questo capitolo, a metà di un libro che forse ambisce a una profondità diversa rispetto ad altri: una profondità riflessiva, tutt’altro che esplicativa, perché il ragionamento coinvolge elementi personali e impersonali, soggettività e oggettività, cultura e società, salute pubblica e realizzazione individuale. Nel capitolo precedente, affrontando il discorso sul management informativo dei rischi connessi al consumo di alcol, che l’Irlanda ha deciso di effettuare mediante indicazioni in etichetta, ha fatto capolino una questione tutt’altro che minoritaria nella pubblica opinione: ma se l’alcol e il fumo fanno male, lo Stato non li vieta solo perché ci guadagna attraverso le tasse? E d’altra parte, se è ovviamente vero che lo Stato ha nelle tasse su fumo e alcol un’importante fonte di entrate fiscali, lo stesso vale per il gioco legale, la cui connessione con le ludopatie è più che intuibile. E guadagna anche dalle concessioni delle spiagge su cui la gente va ad abbronzarsi d’estate, con un indiscutibile contributo all’aumento di danni alla pelle. Quindi è tutta una questione di soldi e lo Stato, se davvero avesse a cura i propri cittadini, non dovrebbe fare altro che rinunciare a queste entrate, proibire i comportamenti che aumentano i rischi per la salute dei cittadini e stop. Giusto? No, ad avviso di chi scrive no.
Gli esseri umani non fanno solo ciò che risulta benefico per il proprio corpo e idoneo a proteggerlo da minacce esterne. Nella vita, tutti noi compiamo una quantità di azioni che ci fanno stare bene, anche se aumentano i rischi di malattie o traumi, talvolta fatali.
Praticare l’arrampicata libera, fare uno sciopero della fame per i diritti dei carcerati, prendere parte a un banchetto di nozze in Piemonte ad agosto, andare a correre senza monitorare costantemente il battito e la circolazione, sedersi davanti alla TV con un barattolo di Nutella in mano, dormire poco per vedere l’ultima stagione di Peaky Blinders senza interruzioni, sono tutti comportamenti che non fanno bene al corpo. Nel senso che non ne migliorano la salute, intesa come riduzione del rischio di malattie e miglioramento delle performance.
La differenza fondamentale tra questi comportamenti e l’assunzione di nicotina o alcol è che le sostanze contenute in un alcolico o nel fumo di sigaretta sottopongono direttamente il nostro metabolismo a fattori nocivi, ai quali, in caso di scelte di consumo diverse, non si andrebbe incontro. Ma possiamo basare su questa osservazione una politica pubblica di proibizione? Chi sostiene tale teoria, di solito non sa cosa rispondere alla domanda: “Allora cosa dobbiamo fare con chi sceglie di mangiare in modo squilibrato, magari ben sapendo che tutti quegli zuccheri, per lui che è diabetico, oppure tutti quei grassi saturi, per lei che è ipertesa, vanno a impattare proprio sulle patologie non trasmissibili di cui soffre?" Oltretutto, oggi non sarebbe nemmeno inimmaginabile un sistema di distribuzione del cibo in cui si faccia passare la tessera sanitaria sotto il lettore di cassa, o una qualche forma di IA che non consenta l’acquisto dei cibi che il medico ha consigliato di “evitare”.
Ci guadagneremmo in salute, nella sua definizione medica, ma staremmo meglio? Ecco un po’ di cose su cui riflettere.
Il consumo di alcol non è una prerogativa umana, quello di vino sì
In un loro fortunato volume, una decina di anni fa, Ian Tattersall e Robert De Salle hanno messo ampiamente in luce come diverse specie di esseri viventi perseguano il consumo di etanolo per ragioni che è problematico definire “ricreative”, quando si parla di insetti per esempio, ma che di certo, e questo è intrigante, non corrispondono a necessità alimentari.
Dunque, nel regno animale, come lo si chiamava nella tassonomia delle scuole medie, non sono solo gli esemplari di Homo sapiens sapiens a consumare alcol senza che sia necessario al loro metabolismo.
Come in molti altri ambiti delle attività connesse all’alimentazione, anche riguardo all’alcol la particolarità della nostra specie sta nell’aver connesso le produzioni e i consumi alimentari (una bevanda alcolica è meno soggetta alla contaminazione da microrganismi, eventualmente patogeni) ad aspetti che vanno dalla manifestazione di un’identità di gruppo sociale, tema che oggi torna tantissimo negli studi che si occupano di neotribalismo, fino allo sviluppo delle religioni. L’identificazione del vino ex genimine vitis come sostanza in cui, durante l’Eucaristia, i cristiani credono si incarni il sangue di Cristo, è un segno potentissimo del legame tra ciò che cambia forma (trans-format è la voce verbale latina che forse ci aiuta a meglio rappresentare l’es senza del sacramento) e la divinità che incontra l’umano.
Con una storia plurimillenaria alle spalle, con l’inclusione in riti praticati da miliardi di individui, con una ininterrotta produzione letteraria dedicata, è del tutto ovvio che al cittadino medio di questo Paese, come in generale dei Paesi europei affacciati sul Mediterraneo, risulti pressoché inascoltabile un discorso sul vino in cui lo si tratti semplicemente come uno fra gli altri alcolici.
Il lettore non faticherà a trovare innumerevoli richiami alla sua specialità, ovvero al non essere un alcolico come gli altri, ribadita da molti autori. A chi scrive corre l’obbli go, innanzitutto, di dichiarare il più assoluto rispetto per quelle dichiarazioni, pur contestualizzandole. Il vino è effettivamente unico per storia, ricchezza di elementi culturali con cui ha interagito, importanza economica, varietà di espressioni e stili (sempre a partire dal medesimo ingrediente molto più che fondamentale, ove non addirittura unico), però... nessuna di queste giustissime caratteristiche di specialità vale a trarlo fuori dalla categoria delle bevande alcoliche, quindi contenenti etanolo, e da ciò che l’etanolo comporta, quando assunto dal nostro organismo.
Insomma, sebbene siano vere gran parte delle cose che si citano per giustificare una specialità del vino nell’ambito dell’alimentazione umana, nessuna di esse può essere posta su un ideale piatto della bilancia quando, sull’altro, siano poste le implicazioni psicofisiologiche del consumo di so stanze contenenti alcol. Farlo significa incorrere in una fallacia logica che nel linguaggio comune si può sintetizzare con la metafora del “mescolare mele e pere”.
Per quali motivi bere alcolici non è mai raccomandato
L’alcol è una sostanza psicoattiva, con proprietà che causano dipendenza. Sì, psicoattiva, esattamente come la nicotina nelle sigarette, ma anche come il THC della cannabis o la psilocibina dei funghetti allucinogeni: non a caso tutte queste sostanze, nei secoli e in diverse culture, sono state al centro di varie pratiche sociali.
Il consumo dannoso di alcol provoca un elevato carico di malattie e significative conseguenze individuali, sociali ed economiche. L’espressione “consumo dannoso” è presa di peso dal dossier sull’alcol dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. Ovviamente, questo aggettivo potrebbe suggerire che esista anche un consumo benevolo. E allo stesso modo potrebbe farci pensare che, guarda caso, sia proprio quello che noi pratichiamo con le bevande alcoliche che preferiamo. Si tratta però di un modulo linguistico ingannevole. Infatti, quando l’OMS parla di consumo dannoso, si riferisce a ciò che, per quantità e concentrazione, risulta immediatamente nocivo, non ai danni derivanti dal consumo a lungo termine.
L’uso dannoso di alcol, nel senso specifico dell’OMS, può provocare danni anche ad altre persone, come familiari, ami ci, colleghi ed estranei: il consumo dannoso di alcol è corre lato al 13,9% dei morti tra i 20 e i 39 anni, perché a quell’età bere in modo esagerato (binge drinking) è parte di un pernicioso passaggio generazionale che spesso influisce sulla guida di veicoli. Il consumo smodato di alcol è alla base di intossicazioni acute che conducono alla morte, “per fortuna”, di un numero limitato di individui. Il consumo dannoso di alcol è anche correlato all’incidenza e all’esito di malattie come tubercolosi e infezione da HIV, banalmente perché l’alcol induce un senso di potenza e una sottovalutazione dei rischi che va poco d’accordo con la prudenza dei comportamenti interpersonali.
Tuttavia, l’OMS ricorda che il consumo di alcol (non più dannoso: il consumo di alcol e basta) è un fattore causale di oltre 200 malattie, infortuni e altre condizioni di salute. Per una donna incinta comporta immediate conseguenze per il feto e aumenta il rischio di parto prematuro. È associato al rischio di sviluppare disturbi mentali e comporta mentali, inclusa la dipendenza, e importanti malattie non trasmissibili come cirrosi epatica, tumori e malattie cardio vascolari. Senza dimenticare che una parte significativa del carico di danni fisici attribuibile al consumo di alcol deriva da lesioni involontarie o comunque non intenzionali, comprese quelle dovute ai già citati incidenti stradali, violenza e suicidio.
Dunque, sebbene la Strategia globale dell’OMS per la prevenzione e il controllo delle malattie non trasmissibili (2013 2020) abbia come obiettivo la riduzione del consumo medio di alcolici da parte della popolazione globale, esistono categorie di soggetti per cui l’obiettivo deve essere la sua completa eliminazione dalla dieta: gestanti, minori, perso ne fragili psicologicamente, persone che assumono farmaci che possono interagire con l’alcol, persone con una storia di dipendenza da alcolici.
Per quanto concerne i più giovani, non minorenni, le evidenze scientifiche più recenti testimoniano che la dose di alcol consumata su base quotidiana dovrebbe rimanere a zero per i maschi fino a oltre 25 anni, se si vogliono minimizzare i rischi, a medio e lungo termine, di contrarre patologie alcol-correlate.
Dibattito italico
Alla luce di quanto abbiamo visto, possiamo chiederci perché permangano, nel nostro Paese, importanti agenzie orienta te a sostenere che bere moderatamente sia compatibile con uno stile di vita sano o addirittura, come ascoltato in un recente congresso, che bere vino con misura faccia bene. Le ragioni possono essere diverse. Una questione di identità culturale, per la già menzionata incapacità di considera re il vino un alcolico come gli altri e quindi di prenderlo in esame, innanzitutto per la percentuale di alcol che contiene. Oppure potrebbe essere considerato un effetto dell’incapacità di processare le informazioni scientifiche ormai disponibili grazie a imponenti studi epidemiologici, poliennali e pubblicati su riviste di grande autorevolezza. Infine, non è da trascurare la conseguenza di interessi economici che più o meno occultamente si pongono sul piatto di una bi lancia che, sull’altro, vede la questione “salute”.
Si possono benissimo combinare due o addirittura tutte e tre le ragioni sopra richiamate, per esempio se si è interessati da un punto di vista economico o ignoranti, sebbene oggi non appaia difficile porre rimedio alle proprie lacune gratis, avendo a disposizione anche solo uno smartphone. Non compete a chi scrive la valutazione della o delle ragioni che spingono giornalisti, medici, politici, rappresentanti di istituzioni sindacali ad affermare cose che è difficile non etichettare come inconsistenti nei contenuti e pericolo se per la libera determinazione dei cittadini.
È difficile, infatti, assolvere dalle proprie responsabilità chi – affermando in modo decontestualizzato che il vino rosso fa bene perché contiene il resveratrolo, o che tutti i centenari consumano vino, quindi è un toccasana – induca anche una sola persona, che si fida di quel medico o di quel sindacalista, a trascurare le informazioni sul consumo di alcol e le linee guida internazionali in materia di consumo di alcolici.
Ovviamente, un giurista sa benissimo che le responsabilità vanno graduate: un medico che sostiene il consumo di vino come salutare tout court è più responsabile di un sindacalista che faccia lo stesso per tutelare l’economia di cui sono protagonisti i lavoratori che rappresenta; se non altro perché per il pubblico è più facile dubitare dell’imparzialità e della cultura del secondo. Ma da un punto di vista di affidabilità dell’informazione pubblica, chiunque faccia di scorsi di questo tipo, e per di più goda di megafoni di gran de potenza (come trasmissioni TV compiacenti, giornalisti che ne raccolgono le affermazioni senza mai porre questioni veramente ficcanti), contribuisce a ridurre l’ambito di autodeterminazione dei singoli cittadini.
Sappiamo alla perfezione, ormai, che il resveratrolo non trasforma il vino rosso in un toccasana e il paradosso francese, sulla cui esistenza ci sono ormai più dubbi che certezze, non si spiega con il consumo di vino rosso tout court.
Non è vero che il suo consumo annulla i problemi connessi all’ingestione squilibrata di grassi saturi, mentre è vero che una dieta di tipo mediterraneo – cioè quella messa a punto da Ancel Keys, non la maxiterranea, per usare l’espressione felicissima di Gabriele Bernardini, a base di cibi ad alta concentrazione calorica che consumiamo senza ritegno, perché li riteniamo tradizionali – esercita un effetto antinfiammatorio e cardioprotettivo, perché previene innanzi tutto un aumento di peso non fisiologico.
Il vino non fa bene, di per sé
Quanto visto deve aiutarci a maneggiare in maniera appropriata gli studi, piuttosto isolati, che dimostrano come tra i consumatori di vino durante i pasti ci siano meno casi di diabete di tipo 2 di quanti ce ne siano nella popolazione che consuma alcol fuori dai pasti (sebbene questo aumenti i casi di fibrosi epatica). O gli studi che dimostrano come 20 g al giorno di alcol abbiano un effetto cardio protettivo: no, non dimostrano affatto che è raccomandabile bere alcolici tout court o che il vino sia un antidiabetico, anzi. Escludono proprio una simile indicazione terapeutica! Per spiegarlo in modo semplice, ricordiamo che anche la nicotina ha un documentato effetto benefico noto ai medici, per determinate condizioni, ma non per questo si consiglia di iniziare a fumare. Il fatto che un consumo moderato di vino rosso abbia effetti positivi documentati non può essere tra dotto nello slogan “Il vino fa bene” o, peggio ancora, nell’in vito a iniziare a bere nella speranza di ottenere tali benefici. Nel vino ci sono molti composti considerati capaci di svolgere una funzione cardioprotettiva, ma la quantità da bere per un’assunzione importante di tali sostanze (incluse le procianidine) è tale da superare quelle che secondo l’OMS minimizzano il rischio di sviluppare alcuni tipi di tumore. In pratica, se rimbalziamo da uno studio a un altro, sembra che la letteratura scientifica ci costringa a due sole scelte: gli effetti preventivi del diabete e quelli cardioprotetti vi (sintetizzando con questa parola i risultati positivi sulle malattie cardiovascolari e cardiache, CHD, che sono il tema degli studi su vino e alcol), al costo di aumentare il rischio di cancro, oppure evitare quest’ultimo con il rischio però di perdere gli effetti benefici.
Questi problemi di comprensione derivano essenzialmente da bias cognitivi. Un bias è un elemento pregiudiziale che impedisce di analizzare le cose come si dovrebbe, perché rappresenta un ostacolo “naturale”: è come un gros so sasso in mezzo alla corrente dei nostri pensieri. Anche se non ci facciamo quasi più caso, lui ne modifica il flusso. Tutti noi, incluso chi scrive, siamo culturalmente e social mente segnati dal ruolo specialissimo che il vino svolge da millenni nella nostra dieta. Siccome è un elemento che ci dà piacere, che segna la condivisione del pasto, che è protagonista di ricordi sin da quando ne abbiamo, vogliamo a tutti i costi una conferma che bere vino sia un bene, faccia bene e non solo che ci faccia sentire bene. Quando leggiamo uno studio che mette in evidenza un fattore positivo dei composti presenti nel vino, ci aggrappiamo a esso gridando: “Visto? Lo dice la scienza!”.
Arriviamo a sottovalutare il fatto che il vino è, nel conte sto italiano, innanzitutto un’abitudine: rientra in quelli che oggi si chiamano pattern alimentari delle popolazioni europee che vivono intorno al Mediterraneo ma, appunto, è solo un elemento di una dieta e di uno stile di vita. Riassumere stile di vita e abitudini alimentari con il bere vino è un errore fatale, sia che lo si consideri come l’origine di tutti i mali (e ci si esponga alla critica di chi brandisce gli studi citati su effetti cardioprotettivi, anti-neurodegenerativi e diabete B), sia che lo si consideri il segreto della longevità (esponendosi agli strali di chi brandisca gli studi che in vece supportano la raccomandazione OMS, basata sul fatto che solo 0, leggasi zero, è la soglia di consumo di alcol che non comporta un aumento del rischio di cancro).
Ora, bisogna considerare attentamente la multifattorialità in cui il consumo di vino, all’interno di pattern alimentari e altre abitudini di vita, si inserisce, senza dimenticare quanto ancora poco sappiamo dell’interazione tra il geno ma delle popolazioni e il consumo di alcol, ma non solo.
Le popolazioni che abitano le regioni mediterranee d’Europa vivono di più all’aperto e statisticamente si muovono di più a piedi, anche per via di servizi di trasporto non proprio capillari e per la struttura delle città. Hanno a disposizione prodotti vegetali freschi a prezzi in media convenienti, e tradizioni culinarie che si sono sviluppate attorno a questa abbondanza di risorse fresche non animali piuttosto economiche, creando abitudini alimentari positive e sviluppando ricette che Ancel Keys ha ampiamente “saccheggiato”, proponendo agli americani uno stile alimentare efficace nel marketing (ecco perché presentato come mediterraneo), non troppo distante dal loro modo di man giare (evitando di proporre le diete coreane o taiwanesi o giapponesi, parimenti protettive), e capace di ridurre l’incidenza di malattie cardiovascolari.
In questo orizzonte di stile di vita e dieta, il consumo basso o moderato di vino è un elemento che in nessun modo può essere isolato dal contesto, caricato di una positività tutta sua, ovvero proposto come positivo in modo assoluto, slegato da altri elementi dello stesso pattern alimentare. Sembra invece esattamente quello che fa Jason Wilson nel suo articolo Is Alcohol the New Tobacco?. Rammenta infatti come all’inizio degli anni Novanta Morley Safer, conduttore della celebre e autorevole trasmissione “CBS 60 minutes”, incontrando in Francia il professor Renaud, individuasse proprio nel consumo di vino rosso il segreto del “paradosso francese”. In realtà, esaminando il filmato di quella trasmissione, le cose non stavano proprio così: Renaud suggeriva come ipotesi di spiegazione un complesso di elementi. Innanzi tutto ricordava l’abitudine francese di consumare cibo solo nelle tre occasioni principali del giorno (evitando snack a ogni ora); poi l’abitudine di preparare il repas a casa, da consumare durante una pausa dal lavoro, in maniera cronologicamente ordinata (ricordiamo sempre che il repas gastronomique des Français è ciò che è stato iscritto al patrimonio immateriale dell’UNESCO, non la cucina francese, non qual che ricetta), investendo tempo nella preparazione e denaro nell’acquisto di ingredienti freschi, invece di cibo pronto da scaldare e ingurgitare in pochi minuti. Renaud sottolineava anche l’importanza di non comprare alimenti confeziona ti, perché se le porzioni sono fatte dall’industria, le persone tendono a adattarvisi e, infine, riteneva che il consumo di latticini avesse un’influenza diversa sulle arterie rispetto al consumo di latte fresco. Certo, Renaud esprimeva anche in modo esplicito la convinzione che un consumo modera to di alcol costituisse un fattore di protezione cardiocircolatorio, ma nell’ambito del pattern alimentare delineato e comunque nell’ordine dei due bicchieri al giorno. Affermava infatti che il consumo moderato quotidiano non equivale va a un’assunzione concentrata delle medesime dosi di al col. Renaud ricordava in proposito che l’alcol era una droga e come tale andasse utilizzata, per le sue proprietà curative, entro limiti tali da minimizzarne la tossicità. Lo stesso ricercatore francese, parlando della dose quotidiana equilibrata, esprimeva correttamente l’avviso che per tali quantità, da un lato venivano evidenziati effetti cardioprotettivi, dall’altro non risultavano scientificamente assodati i rischi, sulla base delle conoscenze diffuse. Ebbene, da allora quel le conoscenze sono cambiate.
Per molti secoli, certamente, è stato un modo di bere senza rischiare spiacevoli o addirittura fatali conseguenze connesse alla penuria di acqua potabile. Oggi rimane un costume, che in quel contesto e con le modalità tipiche dell’assunzione moderata e frequente sappiamo non produrre i danni propri del consumo concentrato ed episodico. Insomma, c’è differenza tra un bicchiere di vino pro capite al giorno e una bottiglia di vino tutta intera (più o meno sette bicchieri) al sabato, dopo una settimana di astinenza. E questo senza considerare che il vino caratterizza, nelle abitudini dei popoli mediterranei, i pasti condivisi: un ulteriore elemento che favorisce un controllo sociale sul suo uso, oltre che un fattore di limitazione delle modalità di assunzione del cibo in generale.
Dunque, si può concludere che non è corretto affermare apoditticamente che il vino fa bene, facendo cherry picking degli studi in virtù del nostro bias culturale, perché ciò significa trascurare le evidenze della correlazione tra ingestione di bevande alcoliche e insorgenza di gravi patologie. Tuttavia, questo quadro, che si spera risulti più chiaro rispetto a quanto si sente in TV o si legge su molti giornali generalisti, non comporta in automatico l’assunto che il vino sia un vizio con i giorni contati, che sia destinato ineluttabilmente a essere abbandonato o infine proibito. Bisogna però accettare la complessità dei nostri comportamenti, fare un passo verso un concetto un po’ più ampio di salute e riappacificarsi con il fatto che gli esseri umani – non tutti, per carità, ma gran parte – fanno, frequentano, praticano e anche consumano cose per la gioia, il piacere, il sollievo che ne traggono, nonostante i rischi.
I rischi connessi all’alcol
I rischi connessi al consumo di alcol sono stati al centro del dibattito negli ultimi anni, perché la pubblicazione di una serie di ampie metanalisi da parte di “The Lancet” ha evidenziato come non esiqusta una dose di alcol al di sotto del la quale si possa dire che non si verifichi un aumento di rischio per alcune patologie. In particolar modo tumorali, poiché il principale indiziato degli effetti cancerogeni è l’acetaldeide, primo sottoprodotto della digestione di ogni molecola di etanolo che ingeriamo.
Questo elemento ha scosso le fondamenta della comunicazione basata sul “Bevi responsabilmente” e del suo corrispettivo nel mondo del vino: lo slogan “Wine in moderation”, adottato da alcune grandi aziende vitivinicole, ma che compare anche come titolo di un paragrafo di una recente metanalisi narrativa spacciata in Italia per una definitiva approvazione scientifica del consumo di alcol. Se non esiste una soglia minima al di sotto della quale si è al sicuro, allora anche bere pochissimo fa comunque male?
La domanda è mal posta. Affermare che non esiste una quantità che si possa consumare al riparo da rischi non equivale a dire che ogni consumo di una quantità di alcol faccia male.
Dunque il quesito è posto in maniera errata, perché se si risponde in modo preciso e affermativo, come piace a una certa comunicazione, ecco che il bias cognitivo di milioni di persone si aggrapperà a tutti gli ottuagenari conosciuti per ribattere che, se fosse vero, quegli arzilli ottantenni con migliaia e migliaia di bicchieri di vino bevuti nel corso dei decenni non dovrebbero esistere. Invece esistono, per giunta in uno dei Paesi più longevi al mondo e, nella provincia dei longevi (Nuoro), la loro dieta comprende vino rosso. Cosicché, in virtù dell’arroccamento, non potremo sperare di avere decisioni consapevoli, ma solo difese del le proprie abitudini e identità, mentre quelle che qui interessano sono le scelte responsabili.
Se il DNA cambia
Molte sostanze che utilizziamo ce l’hanno: dall’henné alla crosticina sulla fetta di carne che fa salivare molti di noi. Questa capacità ne determina la qualificazione come cancerogeno, capace cioè di contribuire al processo di forma zione di un tumore maligno. L’assunzione di una quantità ragionevole di alcol o il consumo di bistecche cotte a puntino sulla brace non determina il cancro: questi comportamenti aumentano il rischio che si sviluppi, perché sono coinvolti molteplici processi fisiologici, tra i quali certamente giocano un ruolo le sostanze cancerogene, ma molti altri fattori ambientali e individuali, come predisposizioni ereditarie, situazione immunitaria, compresenza di altre con dizioni patogeniche.
Ecco perché affermare che il consumo di alcolici aumenta eventuali rischi non significa sostenere che qualunque ingestione di tali sostanze faccia male a chiunque in ugual misura.
La voglia di sapere sempre se siamo di fronte a qualcosa di bianco o nero, di buono o cattivo, corrisponde alla modernissima tendenza a semplificare a ogni costo. In fondo, la nostra ossessione per l’autentico e il genuino passa per lo stesso meccanismo di scelta: semplificazioni che ci evi tano (o almeno, così pensiamo) di porci domande più complesse, di pensare per esempio a come è impostata la nostra dieta nel suo complesso, invece di badare semplicemente a selezionare l’ingrediente giusto. Lo facciamo di continuo scegliendo un superfood per “compensare” gli stravizi delle Feste o bevendo una zero-zucchero mentre divoriamo un hamburger da 940 calorie.
Eppure nella nostra vita fronteggiamo molte situazioni che ci aiutano ad apprezzare la differenza tra pericolo e rischio e a considerare appropriatamente quest’ultimo, per decidere come vivere.
Tutti sappiamo che attraversare una strada carrabile comporta un rischio: la probabilità che il pericolo si realizzi, ovvero che un veicolo ci investa. Se attraversiamo una strada a quattro corsie, il rischio aumenta; se lo facciamo di notte senza illuminazione, il rischio aumenta; se lo facciamo senza guardare a destra e sinistra, il rischio aumenta. Se lo facciamo in una giornata di sole, attraversando una strada a una corsia, in una zona cittadina centrale con i dossi, guardando a destra e sinistra, il rischio si abbassa, e molto. Certo, se rimanessimo in casa, oppure se per arrivare in un dato posto non dovessimo mai attraversare la strada, il rischio di essere investiti sarebbe pari a zero. Ma tale evenienza non sarebbe compatibile con il fatto di andare dal punto A al punto B, oppure di arrivarci in tempo, a meno di una topografia molto fortunata.
Ecco, si dirà: l’esempio non regge perché io da A a B ci DEVO andare, mentre bere alcolici o mangiare carne arrostita NON è un dovere. Indubbiamente vero, ma cosa sottende un’obiezione di questo tipo? Forse il pensiero che dovremmo fare solo le cose necessarie o quelle giuste? E chi potrebbe stabilire a priori le une e le altre, con esattezza? O ancora, chi di noi potrebbe affermare che leggere un libro, visitare una mostra d’arte, ascoltare musica siano attività strettamente necessarie?
A questo punto, è verosimile che qualcuno stia pensando: sì, ma queste scelte non nuocciono alla salute. Dunque il superfluo va bene, ma solo se non aumenta i rischi per la salute, giusto? Dobbiamo allora mettere in discussione una enorme quantità di comportamenti, come si diceva in apertura di capitolo, perché non necessari e certamente in grado di aumentare i pericoli per il nostro benessere.
Si sta forse dicendo che siamo tutti masochisti, disinteressati all’integrità del nostro corpo? No, si sta dicendo che l’idea della salute come assenza di malattie, sebbene intuitiva, non corrisponde per nulla a ciò che individualmente e socialmente ci auguriamo come condizione sanitaria, a meno che non siamo ipocondriaci, è ovvio. Stare bene, in fatti, non significa soltanto “non stare male”. Adottare comportamenti rischiosi, avendo il giudizio di minimizzarne i rischi, scegliendo liberamente come comportarci, definisce e realizza la nostra personalità, innanzitutto nella cultura cui scegliamo di contribuire o sentiamo di appartenere. Questo comporta coscienza di sé, di ciò che si fa e di ciò che fa a noi quello che decidiamo di fare. Nel 1981 Caroline Whitbeck pubblicò un fondamentale saggio sul concetto di salute, introducendo un pensiero che, ai nostri tempi di salutismo e giovanilismo obbliga ti, può suonare sconvolgente: “La mia tesi generale è che non solo la salute è superiore all’assenza di malattie, lesioni e menomazioni, ma anche che un alto grado di salute è compatibile con un certo grado di malattia, lesione e menomazione. Inoltre, il rapporto tra i concetti di salute e malattia è intimo”. Sulla base di questa tesi, Whitbeck affermava che i concetti di salute e malattia non appartenevano allo stesso dominio logico e che medicina e igiene (storicamente: l’insieme delle attività che promuovono la salute) sono discipline ben distinte, al contrario di quanto si ritiene oggi. Anche a causa dell’organizzazione accade mica, che tratta l’igiene come una branca della medicina, favorendo la riduzione degli approcci pro-salute a semplici approcci medicali, in modo non sempre efficiente, come ci hanno insegnato le campagne vaccinali in tempo di pandemia da Covid-19.
Sebbene sia importante comprendere il carattere integrato di un elevato stato di salute, è possibile identificare componenti significative della salute. Tra queste ci sono la forma fisica, avere una visione realistica di se stessi e degli altri e avere la capacità di gestire situazioni stressanti. Sebbene il concetto di salute sia molto più dell’assenza di malattia, e in effetti un alto livello di salute sia compatibile con l’a vere qualche malattia, la salute non coincide con entrambi gli aspetti, benessere sociale e felicità. Oltre alle condizioni mediche, c’è un’altra classe di condizioni che spesso compromettono la salute, che io chiamo “condizioni di auto-alienazione”. A causa dell’importanza della considerazione di questi e di altri fattori che incidono sulla salute di una persona e che esulano dall’ambito della competenza medica, le decisioni sull’adeguatezza di un intervento medico, cioè le decisioni sul fatto che tale intervento sia suscettibile di produrre un aumento o un miglioramento net to della salute di una persona, non possono essere decise sulla base della sola competenza medica. Sostengo che di solito sia meglio che le scelte vadano fatte dalla persona la cui salute è in gioco.
Se il concetto di salute acquisisce anche per noi questa complessità, allora la scelta di consumare alcolici, esporci al sole, mangiare carne alla griglia non si pone per forza in contrasto, sebbene aumenti senza dubbio i rischi di alcune patologie. Naturalmente, ciò vale se tali usi rappresentano una scelta e non una necessità dettata da una dipendenza o da condizioni economiche e ambientali, e sono effettuati con un sufficiente grado di consapevolezza.
Applicando il criterio appena tratteggiato, sembra possi bile distinguere il consumo ossessivo dell’alcolista da quel lo di chi apprezzi gustativamente, culturalmente e necessariamente il vino in quantità moderate, senza bisogno di etichettarlo come salutare dal punto di vista delle attuali conoscenze epidemiologiche, riconoscendo inoltre che esso possa rientrare in un concetto più ampio di salute. Viceversa, l’alcolista non può in alcun modo esservi compreso, sia per l’assenza della volontarietà in una persona dipendente da una sostanza psicotropa, sia per la condizione oggettiva di incapacità psicofisiologica di rispondere in modo appropriato a una varietà di situazioni e stimoli, caratteristica di tale condizione.
Qualche spunto per il legislatore
Dunque, come si è visto, il vino non fa buon sangue, ma è di certo parte integrante di più di una cultura influente fra quelle che nella storia si sono stratificate in Italia e in Europa. Si sconsiglia di approcciare i problemi connessi al consumo di alcol – anche attraverso il medium del vino, perché non ci sono ragioni oggettive per distinguere il vino dal le altre bevande alcoliche, clinicamente parlando – da un punto di vista soltanto medicale, perché un approccio simile rischia di appiattire il concetto di salute e di non produrre l’effetto desiderato.
In un Paese libero dove lo Stato non eserciti una funzione etica rispetto alle scelte di comportamento e consumo dei singoli, almeno fino a quando tali scelte non impattano su altri cittadini o il numero di chi opera scelte individuali provochi l’insostenibilità delle loro conseguenze, l’effetto desiderato non può che essere un’assunzione moderata di bevande alcoliche, tra cui il vino, orientata ad apprezzare gli aspetti gustativi più che gli effetti psicotropi (perché ciò costituisce una limitazione naturale alla ricerca dell’ebbrezza), nella piena consapevolezza delle conseguenze psicofisiologiche derivanti dall’ingerimento di alcol.
Questo tipo di consumo è compatibile con la società attuale, anche se naturalmente tale compatibilità dovrà essere oggetto di costante monitoraggio, perché in un caso simi le, più che in altri, è opportuno pensare a delle sunset laws, a leggi cioè che richiedano una costante, programmata manu tenzione. A riprova di ciò, ricordiamo che fino al 1956, nelle mense scolastiche francesi si serviva anche mezzo litro di vino, birra o sidro a studenti minori di quattordici anni e che l’alcol è stato del tutto bandito dalle scuole solo nel 1981.
Coerentemente con quanto esposto, lo Stato dovrà preoccuparsi di adottare azioni complessive volte a migliorare nei cittadini la comprensione delle conseguenze che deri vano dal consumo di alcolici. Deve essere un’azione pun tuale, che eviti di demonizzare qualunque abitudine, perché non sarebbe produttivo in un contesto culturale come quello italiano e nemmeno proporzionato, stante il rapporto tra aumento dei rischi di patologie e aumento delle quanti tà. Unitamente a questa strategia per la consapevolezza, lo Stato deve adottare strumenti efficaci a contrastare la diffusione di informazioni infondate, notizie false e creden ze ormai smentite dalla ricerca scientifica (come quella che compare nel titolo di questo capitolo), come pure la pubblicità degli alcolici fine a se stessa, priva di informazioni di carattere sanitario:33 un modo intelligente di farlo è ob bligare chi fa pubblicità a dare informazioni di base sulla correlazione tra alcol e patologie. Guarda caso, proprio ciò che ha chiesto di poter fare l’Irlanda.
Solo in questo modo diventa davvero possibile parlare di scelte individuali coerenti con la cultura a cui si decide di appartenere – sia essa inclusiva o esclusiva di alcolici –, contenendo i rischi del bere dannoso ma, al tempo stesso, senza tirare in ballo insostenibili affermazioni di salubrità attribuita al consumo di vino in quanto tale, o addirittura in quanto italiano.
Naturalmente, ciò comporterà la constatazione che, a quel punto, non hanno troppo senso il divieto generalizzato e la criminalizzazione di sostanze psicotrope, che per concentrazione di principio attivo e meccanismo di effetto sono simili all’alcol, o per certi versi addirittura meno prodighe di controindicazioni. Ed è questa l’opinione anche di chi scrive. Ma non è possibile, in tale sede, affrontare il tema del proibizionismo e delle ragioni che militano per il suo superamento. Senza dubbio, ci sembra di poter osservare che il proibizionismo nei confronti della cannabis per uso ricreativo e la tesi che bere vino faccia bene non si possano ascoltare, se sostenuti dalle stesse persone.