Non c'è solo il caporalato in Italia, per fortuna infatti si contano realtà agricole che, con il lavoro, aiutano chi è più svantaggiato. È il caso di Antonino Caravaglio, vignaiolo che ha riportato la viticoltura a Stromboli, una storia di inclusione, uno sguardo allargato verso l'accoglienza e l'ottimismo. Nella sua azienda sull'isola di Salina ha assunto quattro ragazzi rifugiati. Una storia a lieto fine che dovrebbe essere la regola più che l’eccezione. «L’immigrazione dovrebbe essere vista come una potenziale risorsa», dice Caravaglio. «Uno dei fattori limitanti che spesso si riscontrano in agricoltura è la necessita di manodopera. Io ho preso con me quattro ragazzi, tutto nell’ambito della legalità ed è stata una scelta determinante perché ho trovato dei bravi dipendenti che si occupano dei miei vigneti. 35 Appezzamenti che richiedono tanta manodopera. Ed io non posso che essere riconoscente di questo».
Manodopera e turismo
Coltivare la vigna è un lavoro tempo pieno, specie su un isola, dove l’offerta si riduce e bisogna fare i conti con altri fattori. «Salina è un posto turistico e molta manodopera si riversa in quel settore, soprattutto nei mesi estivi, quando sono più necessari interventi in vigna. Per non parlare delle tante persone che servono per un’azienda come la mia con tanti appezzamenti diversi, dislocati tra tre isole». Caravaglio prova una strada alternativa, un percorso che si muove sulle direttrici dell’inclusione e la legalità.
«Mi sono informato, e sono andato al centro di accoglienza Don Bosco 2000 nel comune di Piazza Armerina. Ho parlato con la coordinatrice del centro e la mediatrice culturale che cura l’inserimento dei giovani in un contesto lavorativo. Ho presentato loro la mia azienda e le mie esigenze, spiegando che avevo bisogno di lavoratori. Da lì abbiamo cominciato un processo di inserimento. Ho predisposto delle case che avessero il comfort necessario a riguardo. L’inizio di un percorso che mi ha portato prima ad assumerne tre, e in seguito un quarto. Posso dire che con loro si lavora molto bene», racconta Antonino.
La storia dei quattro ragazzi gli ricorda quella della sua famiglia. «Mio nonno è emigrato negli 1890, mia nonna invece è arrivata a Boston nel 1898, un altro parente emigrò in Australia. La mia famiglia ha trovato fortuna all’estero, lasciando la propria casa, i propri affetti per avere una situazione migliore e l’ha trovato negli Stati Uniti e in Australia».
La potenziale risorsa dell’inclusione
L'inserimento dei quattro giovani immigrati in cantina ha funzionato piuttosto bene. Caravaglio ha messo a disposizione le sue conoscenze, i quattro ragazzi hanno iniziato a interessarsi al lavoro, e col tempo è nato un importante senso di appartenenza all’azienda. «Sono orgogliosi del lavoro che fanno e ormai sono loro che mi dicono “andiamo in quel vigneto perché c'è da fare questo lavoro”. Sono diventati più bravi di me. È una cosa importante all’interno dell’azienda: quando un dipendente fa proprie quelle che sono le priorità e ti dice lui stesso cosa c'è da fare, vuol dire che lo fa col cuore. A volte gli chiedo anche di assistermi in cantina durante le visite guidate. Sono pieni di entusiasmo».
«A loro devo molto. Mi ringraziano, ma hanno fatto molto più loro per me di quanto sia riuscito io a fare per loro. Ho solo assunto regolarmente, secondo la legge, delle persone. Loro invece mi hanno ridato qualcosa di più con la loro disponibilità e la loro passione». Un esempio virtuoso, uno dei pochi, che però ha avuto risonanza all’interno del panorama siciliano. «Ho voluto dare visibilità a ciò che ho fatto, parlandone con ristoratori e colleghi, ma non per vanità personale ma perché altre aziende potessero emulare questo esperimento». E altri infatti lo hanno fatto.