Il pianto del bambino si solleva nel vento del deserto maghrebino verso qualsiasi direzione intorno a noi. Agnese è mortificata: vedendo il ragazzino correre così allegramente tra le tende l’ha sollevato per stringerlo a sé. Marwan però, tre anni di vita, non era mai stato toccato da un estraneo, tanto meno da un’estranea. La madre ci sorride mentre lo porta via in braccio verso la tenda principale dell’accampamento, calando le pesanti pelli di cammello sulle sue urla, quasi spegnendole. Il padre invece spunta con la testa dal retro del recinto delle capre, ci fa segno di andare da lui, di non preoccuparci. Scopriamo un’altra tenda dietro il piccolo recinto, aperta su due lati, da cui sporge un enorme tappeto con sopra una decina di cuscini colorati.
Un caos ordinato
La lana del tappeto si perde in fantasie che passano da intrecci simmetrici a sproporzioni improvvise, con linee rette che terminano in brusche sbavature, eppure la sensazione generale è di un caos ordinato, come se il tappeto fosse stato intrecciato dalla natura intorno a noi.
Per chilometri e chilometri questi qui per terra sono gli unici cuscini colorati, l’unico segno di civiltà umana nel deserto di Merzouga, nove ore di macchina a est di Marrakech. Compreso Yusef che ci accompagna, siamo sei: ci sediamo sui cuscini togliendoci le scarpe mentre Gabriele, il più piccolo di noi, rimane fuori a far rotolare tra i piedi un pallone Adidas trovato non so dove.
Il tempo che il nostro ospite sollevi un grosso bollitore di metallo per preparare il tè e Marwan riappare sgambettando dietro la palla, urlando contento.
Il tè alla menta
La madre è già seduta con noi: le persone qui si muovono come miraggi, improvvisamente apparendo e sparendo accanto a te. Il padre di Marwan comincia a offrire il tè alla menta una persona alla volta, con una cerimonia precisa: avvicina la caraffa alla tazzina ramata di ognuno e poi versa archi concentrici di liquido oscillando in tondo il bollitore, per poi tornare a versare l’ultima goccia di tè precisamente al centro della tazza, lasciando tintinnare bollitore e bicchiere. Sorride ad ogni tintinnio, ci offre le tazze chiamandolo whisky berbero e dicendo che il suo è il migliore del deserto.
La cerimonia del tintinnio non serve solo a far capire quanto ci sappia fare con la vita però, è anche praticità: ci spiega che le bolle d’aria che si creano versando così il liquido areano meglio il tè e abbassano la temperatura di quel poco che serve per gustarselo al meglio. La prima sensazione che ti fa compagnia è il bollente del tè: inganna il tuo corpo, facendolo raffreddare mentre va in tilt. Un retrogusto amaro e poi arriva il sapore della menta con il suo fresco, ti accarezza. Il tè qui è oltre la tradizione: ti viene offerto a ogni minimo pretesto, ben oltre le tre volte al giorno di cui parlava Yusef in jeep mentre attraversavamo le dune.
Il “whisky berbero”
«Qui c’è un detto sul “whisky berbero”: il primo bicchiere è amaro come la vita, il secondo bicchiere è forte come l’amore, il terzo bicchiere è delicato come la morte». Mentre beviamo, un capretto fa capolino con la testa oltre i drappeggi della tenda per rubare qualche carezza: ogni famiglia berbera qui ha il suo piccolo allevamento di capre e galline. È anche uno dei motivi per cui i nomadi del deserto - che si riferiscono a loro stessi come “amazigh”, uomini liberi - vivono in famiglie isolate tra loro: un allevamento comune di capre devasterebbe le piccole radure che si trovano così raramente nel deserto di Merzouga, costringendoli a uno spostamento continuo.
Frammentando il gruppo invece possono permettersi anche periodi di pausa, come nel caso di questa famiglia, con le tende piantate qui da tre anni, da quando è nato Marwan.
Se serve vendere qualche capra o un tappeto, si arriva fino al mercato di Rissani, due ore e mezza a piedi da qui.
Viaggio alla luce della luna
Si viaggia di mattina, prima del presto, all’ultima luce della luna, che qui hanno una parola per indicare, perché è una luce importante: la luce della luna si chiama tiziri. Ascolto sorseggiando il tè quando, come fosse stato portato da una folata di vento caldo, tra le mani della padrona di casa appare un vassoio d’argento che riflette i raggi del sole a picco: adagiato sul metallo caldo, stesa come una lucertola al sole, una focaccia farcita, fumante e spezzata in due, si manifesta nella tenda.
Si chiama madfouna, si cuoce nel più piccolo dei due forni di argilla della tenda qui accanto: il più grande serve a mantenere il calore, il più piccolo a cuocere tajine e la “pizza berbera” che abbiamo davanti. Farina, semola, lievito, sale: nasce un impasto morbido e bagnato che più le mani della donna lavorano più si asciuga, diventa denso, vivo. Una volta pronta, questa sfera lievitata riposa per un paio d’ore, poi si divide, formando due dischi di pasta gemelli, spessi, materici.
Il piccolo forno
La camera del piccolo forno di argilla è grande esattamente quanto i dischi di pasta, che cuociono sorvegliati amorevolmente dalla cuoca, che ne controlla temperatura e umidità, bagnandoli con un piccolo mestolo di legno quando serve. Qui nel deserto la versione più comune è quella vegetariana, con cipolle, uova, mandorle tritate, paprika, cumino e prezzemolo. È un sapore pastoso, genuino, di cui senti l’energia e avverti l’importanza: ti accoglie.
Marwan e Gabriele hanno smesso di giocare per prenderne una fetta e si sono fermati all’ombra parlottando a gesti.
Tè caldo, tè freddo
Non è la prima famiglia amazigh che conosciamo durante questi giorni e in ogni tenda in cui entriamo la prima cosa a cui faccio attenzione è sempre la temperatura del tè. Non è scontato riceverlo caldo: nel deserto si dice che se si va a trovare qualcuno non si annuncia la propria presenza, ci si presenta e basta.
Se una volta arrivato ti offriranno tè caldo, sei il benvenuto, vogliono chiacchierare con te fino a che il tè non si raffreddi. Ma se ti serviranno tè freddo è perché non hanno tempo da dedicarti, sbrigati a finirlo e vai via. Sembra un modo molto scortese per far capire a qualcuno di levarsi di torno, ma in tutti questi giorni in tutte queste tende, in mezzo a queste persone che chiamano per nome ogni duna del deserto e che hanno una parola per la luce della luna, io non l’ho mai trovato il tè freddo.