Si fa presto a dire aceto. Sotto questo nome, semplice e immediato, si nascondono in realtà ingredienti, mondi, culture (e anche sottoprodotti) che fanno parte della storia dell'uomo fin dai suoi albori. Non è affatto facile, oggi, trovare un "aceto vero", realizzato in maniera corretta e partendo da materie prime di qualità. Eppure parliamo di un ingrediente indispensabile. Ecco come rinasce la tradizione acida in cucina e in cantina.
Il gusto acido che piace tanto agli chef
Tra i cinque gusti fondamentali – amaro, acido, dolce, salato, umami – su cui giocare per creare infinite combinazioni di sapori, l’agro è forse il più apprezzato nella cucina contemporanea per la sua capacità di esaltare le sensazioni gustative, smussare i toni stucchevoli, dare profondità ai piatti, sollecitare il palato con sferzate ben modulate. Gli chef lo ricercano attraverso fermentazioni spinte, bacche rare, erbe selvatiche frutto di meticolosi foraging, agrumi esotici e un repertorio di altri prodotti, mentre capita meno di frequente che scelgano di usare come ingrediente tout court l’elemento acido per eccellenza: lui, l’aceto!
Le origini dell'aceto
Le sue origini si perdono nella notte dei tempi, indissolubilmente legate a quelle del vino o, per meglio dire, alla fermentazione di frutta o idromele, come avveniva in Mesopotamia o in Egitto dove, come testimoniano alcuni ritrovamenti nelle tombe egizie, era usato come pagamento per gli imbalsamatori. Nell’antica Roma era la base per la posca, dissetante e tonificante mistura di acqua e aceto bevuta da gladiatori, legionari e contadini; mentre nel Medioevo il “rimedio dei quattro ladri” – o aceto di Marsiglia, infuso di erbe medicinali come salvia, lavanda, rosmarino e timo in aceto di vario tipo – era ritenuto in grado di proteggere dal contagio della peste, e ancora oggi in Francia viene commercializzato come blando rimedio ad ampio spettro.
Aceto. Ingrediente classico, ma poco considerato
Imprescindibile (e classico) complemento all’olio extravergine di oliva per condire l’insalata – dando origine alla vinaigrette, dal nome francese che ne riprende le origini di vin aigre, vino acido –, l’aceto è un ingrediente fondamentale (ma spesso nascosto) per tantissime preparazioni casalinghe o diventate ormai familiari da leggere sui menu: salse come la bernese o il tipico bagnet piemontese, giardiniere, fondi deglassati, gastrique, marinate, cacciatora. Spesso però, è anche uno dei prodotti acquistati più distrattamente, mettendo nel carrello della spesa bottiglie qualsiasi senza far troppo caso all’etichetta, magari da usare anche per lucidare i fornelli. Destinando alle occasioni speciali – o semplicemente a qualche piatto un po’ più elaborato o appagante – la bottiglia di balsamico tradizionale (che qui tralasciamo, visto che ha già un’attenzione decisamente superiore al “fratello semplice”).
Un eroe misconosciuto
“Eroe misconosciuto”, così lo definisce Michael Harlan Turkell, giornalista americano che si è fatto conquistare talmente dalla passione per l’aceto da metter su un vero e proprio laboratorio dove lavora pressoché qualsiasi cosa possa sviluppare una componente alcolica ottenuta dalla fermentazione degli zuccheri (condizione necessaria per l’acetificazione); e poi da girare il mondo sulle tracce delle tante, possibili vie dell’aceto e di coloro che s’impegnano a valorizzarlo con produzioni attente, capaci di unire antiche tradizioni e moderne conoscenze, per scrivere un libro: “Acid Trip”, il cui sottotitolo recita “un viaggio nel mondo dell’aceto, con ricette di grandi chef, consigli dai migliori produttori e istruzioni dettagliate su come fare il vostro”. Un bel tributo a un prodotto così prezioso e dalla storia antica ma relegato a commodity gastronomica. Anche perché la qualità media dei prodotti in vendita a pochi euro è piuttosto dozzinale, frutto di lavorazioni industriali frettolose e di materie prime scadenti. E, sostanzialmente, di scarsa conoscenza a riguardo.
Come fare un grande aceto
Proviamo allora a capire cosa ci sia dietro un “grande” aceto – o meglio, alle tante tipologie che se ne possono realizzare – parlando con chi della produzione di qualità ha fatto la propria bandiera: ovvero gli “Amici Acidi”. Stiamo parlando di un gruppo di produttori e di amici (di aceto ma anche di vino, distillati, miele: Andrea Bezzecchi, Andrea Paternoster, Mario Pojer, Joško e Mitja Sirk e Andreas Widmann) che oltre a realizzare aceti eccellenti ha deciso d’impegnarsi per far cultura attorno a questo prodotto, con tanto di relativo Manifesto, sfatando alcuni falsi miti per promuoverne un uso consapevole e virtuoso, a casa e al ristorante.
Perché il metodo dell'acetificazione statica superficiale è il migliore
“Dei tre metodi esistenti per fare l’aceto – spiega Andrea Bezzecchi, fondatore dell’Acetaia San Giacomo a Novellara oltre che presidente del Consorzio di tutela dell'Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia Dop – Quello che c’interessa è solo quello che noi definiamo metodo primitivo, cioè la lentissima acetificazione statica superficiale”.
Negli altri due, che puntano ad accorciare drasticamente i tempi di produzione, il calore determina la perdita delle componenti volatili (dunque degli aromi, i profumi) del vino – la materia prima più frequentemente utilizzata in Italia – che possono essere eventualmente recuperate e aggiunte nuovamente; mentre le lavorazioni troppo veloci e l’uso di materie prime di scarsa qualità fanno sì che gli acetobatteri vadano in qualche modo “dopati” con aggiunta di nutrienti (glucosio, lievito, vitamine, minerali) per mantenere le loro performance, restando sulla metafora sportiva.
Inoltre, il prodotto è solitamente diluito con acqua sia all’inizio del processo (per abbassare il contenuto alcolico del vino favorendo il lavoro dei batteri) sia alla fine, per evitare di avere un prodotto troppo acido. Il contenuto finale di una bottiglia è solitamente tra il 20% e il 40% di acqua che non è obbligatorio indicare in etichetta; può esserci anche un residuo alcolico dell'1,5%vol. per gli aceti commerciali e fino al 4%vol. per quelli acetificati con metodo statico superficiale. E in Europa, grazie alle normative vigenti, ci va ancora bene visto che per la produzione di aceto è comunque necessario partire dalla fermentazione alcolica di una materia prima agricola; negli Stati Uniti invece, racconta Turkell nel libro, i produttori industriali possono usare come base etanolo di sintesi, estratto da legno o petrolio: roba da far perdere la voglia di condire l’insalata.
Il metodo primitivo e il malinteso della "madre"
In ogni caso è evidente che difficilmente si possa trattare di prodotti eccelsi, come sono invece quelli ottenuti da una lavorazione lenta, paziente, naturale e dall’utilizzo di materie prime di qualità, che si tratti di vino, frutta o altro; la base di partenza deve essere in ogni modo un liquido alcolico, quindi che abbia effettuato una prima fermentazione alcolica, che sia una spremuta di frutta o l’idromele, con eventuale uso di starter o per azione dei batteri presenti nell’ambiente.
Con il metodo “primitivo”, solo il tempo – aiutato da una temperatura dell'acetaia che non scenda sotto i 20° e non superi i 30°, ma senza forzature – fa sì che il processo di acetificazione (dunque una seconda fermentazione acetica) sia accurato e completo. L’obiettivo è di creare le condizioni ideali per far lavorare batteri “buoni” che trasformino tutto l’alcol in acido acetico con un processo lento ma inesorabile; la loro presenza si nota quando sulla superficie del liquido si forma un sottilissimo velo batterico, sotto il quale l’aceto resta puro e limpido mantenendo a lungo inalterati – anzi, esaltandoli grazie alla componente volatile – la fragranza e i profumi dell’ingrediente base. Questo però, non esistendo colonie selezionate di acetobatteri, non sempre accade. Può capitare che invece del velo si formi la famosa madre: uno spesso strato di cellulosa in cui restano annidate colonie di batteri moribondi, risultato – o meglio, residuo e deiezione – della produzione di acido acetico da parte di alcune specie poco nobili di acetobatteri, che andrebbe quindi eliminato appena possibile. “La qualità dell’aceto prodotto da quelle specie di acetobatteri è scadente e la madre costituisce una sorta di tappo in superficie che col tempo si stratifica, diventa pesante e cade in fondo al recipiente – prosegue Bezzecchi – Inoltre dà luogo a odori sgradevoli che snaturano il buon vino di partenza. Insomma, non apporta nulla di positivo all’aceto, come invece vorrebbe buona parte della comunicazione su questo prodotto”.
Tradizioni e sperimentazioni
Lui, che ha ripreso la tradizione familiare della produzione di balsamico – ampliando le batterie del padre e poi avviando l’acetaia oggi ospitata in un casale della campagna emiliana – produce praticamente ogni possibile frutto dell’acetificazione, prevalentemente da vino. Oltre all’Aceto Balsamico Tradizionale di Reggio Emilia Dop, infatti, ci sono diversi balsamici con invecchiamento inferiore ai 12 anni (ma realizzati con la stessa cura), la Saba (mosto d’uva cotto), il Balsamela (aceto di mela ridotto e invecchiato), e tutta la gamma dei “crudi”: aceti non filtrati e non pastorizzati, ottenuti da vini a base di vitigni autoctoni locali o di altre regioni, da Pignoletto e Lambrusco emiliani al Timorasso di Walter Massa. Poi ci sono le sperimentazioni su tempi (come nella Riserva 6 Anni, dal vino rosso di Cascina degli Ulivi) e materiali usati per l’invecchiamento, dalle botti di ginepro alle anfore georgiane. Ogni prodotto ha un suo carattere: dalla dolcezza mielosa dell’aceto di birra alla nota amara dell’aceto di vermut fino alla mineralità setosa di quello in anfora. Proprio la qualità della materia prima e il fermo “no” alla madre, racconta Bezzecchi, sono i principali punti attorno ai quali sono nati gli Amici Acidi. All’insegna della complessità di un prodotto che invece molto spesso viene banalizzato dai consumatori (ma anche da alcuni produttori), per il momento piuttosto ignari delle articolazioni di questo universo.
L'avventura dell'idromele
“Ci portiamo dietro un’idea positiva del termine “madre” che viene dalla panificazione, o forse anche dalla tipica mammosità di noi italiani - gli fa eco il trentino Andrea Paternoster, apicoltore e cantore della biodiversità floreale dell’Italia intera con la gamma di mieli Thun - Ma in questo caso per noi non ha nulla di buono”. Paternoster, naturalmente, per fare aceto è partito dal miele. O meglio dall’idromele: la più antica bevanda alcolica prodotta dall'uomo, ottenuta dalla fermentazione di miele e acqua (altrimenti impossibile, visto l’alto grado zuccherino che rende il miele un ambiente ostico ai batteri risultando anche un ottimo conservante), che forse fu alla base della prima acetificazione della storia. E dire che aveva giurato di non farlo: “Mi sembrava una distrazione dal miele. Poi però ho visto che c’era molta attenzione verso questo prodotto e ho pensato, visto che siamo vicini a Trento, di farne una versione spumantizzata con una tecnica simile al Metodo Classico. Tutto nasce nel 2001 dall’idea di fare aceto di miele, per cui era necessario prima creare una base alcolica”. Per farlo ha scelto due prodotti rappresentativi della ricchezza della flora italiana: il miele di agrumi (chiaro, fresco ed elegante, tipicamente mediterraneo) e la melata di abete che incarna il carattere alpino, scuro e con note di malto, caramello, resine, leggermente fumé. Da qui nascono due aceti molto diversi, che ne riprendono le caratteristiche prestandosi a usi differenti: dall’emulsione di aceto e miele per condire un fresco gazpacho floreale, all’aggiunta di qualche goccia in un brodo asiatico “tipo miso”, in cui la carne viene prima rosolata nel miele e poi si aggiunge l’aceto per dare al tutto un sapore insieme dolce, umami, salato. “Un po’ come nel sorbir emiliano, con il Lambrusco aggiunto al brodo”.
Se si parte direttamente dall'uva
Nel Collio Goriziano, Joško Sirk e il figlio Mitjia – affiancati da Michele Paiano, sommelier de La Subida che si occupa anche della commercializzazione dell’aceto – hanno invece scelto negli ultimi anni di partire non più dal vino (cosa che Joško aveva iniziato a fare oltre trent’anni fa, usando il metodo Orleans che prevede di ricolmare con il vino dal fondo i tini dove c’è l’aceto già pronto) ma direttamente dall’uva, quella di ribolla gialla vendemmiata appositamente. “Oltre a essere la “nostra” uva” - spiega Paiano - la ribolla è perfetta perché ha un’elevata acidità di partenza, sviluppa poco alcol e ha una buccia spessa che consente di tenerla in fermentazione nei grossi tini di legno per 11 mesi”. L’uva matura, sana, trattata quasi per nulla e deraspata, viene fatta fermentare per qualche giorno in grandi tini di legno riempiti per circa ¾; poi si aggiunge “aceto innesto” – non la madre batterica, ma un aceto già pronto e “vivo” – per far partire la fermentazione acetica, che si ferma con l’arrivo dei mesi freddi e riparte in primavera. Prima della vendemmia successiva, la massa viene pressata e il liquido ottenuto riposa per almeno altri tre anni passando in botti più piccole, poi in vasca e infine in bottiglia, perdendo la ruvidezza dei tannini e diventando morbido, carico ma rotondo; perfetto nel sorbetto all'Aceto Sirk proposto dallo chef Alessandro Gavagna al Ristorante Al Cacciatore de La Subida, o per saltarvi in padella insieme al burro le fette di salame, come fa Joško sul focolare al centro della sala, ma anche per molti altri usi culinari.
L'unione tra vino e distillati
Mario Pojer – che nel 1965 insieme al socio Fiorentino Sandri ha dato vita a un progetto fuori dai canoni sulle colline di Faedo, in Trentino, realizzando vini eleganti e di grande personalità da vitigni all’epoca considerati minori come la schiava e la nosiola, grandi distillati e prodotti unici che uniscono i due mondi – ha invece deciso di creare un’acetaia nell’antico Maso Besleri in val di Cembra, dove in due estati vino e fermentati di frutta diventano aceto. Quello di vino rosso è fatto con l’uva solaris, varietà resistente alle malattie fungine creata a Friburgo con un lungo lavoro d’impollinazione incrociata, da cui dal 2013 si ottiene il vino a zero impatto chimico e senza alcun additivo: Zero Infinito. Ma l’acetaia nasce prima, negli anni ’90, quando a Pojer viene l’idea di utilizzare una parte della prima fase della distillazione della frutta locale – mele cotogne, sambuco, ribes, lamponi – per farne aceto, sulla scia della tradizione tipica della Stiria e del lavoro della famiglia Gölles, nome storico della distillazione e acetificazione austriaca.
Tempo e innesti vivi
Andreas Widmann, a Cortaccia, dal 1991 ha ripreso l’antica usanza familiare e contadina dell’acetificazione, parallela alla produzione di vino, cambiando però molte cose. Se una volta si usava la madre e si seguivano le “indicazioni” della luna – colmando le botti col vino nuovo prima e dopo il plenilunio – oggi nell’acetaia ricavata nel maso Auhof, sulle colline della frazione di Niclara, si usano l’acetificazione statica superficiale e "aceto innesto” per trasformare lentamente, senza forzature, i vini in aceti profumati, decisi ma eleganti: perlopiù il rosso, da un uvaggio di schiava, merlot e cabernet, ma anche quello bianco di pinot bianco, solo su richiesta. Poi ci sono gli aceti di frutta, realizzati in piccole quantità con quel che cresce nel frutteto di famiglia: albicocca, pesche, prugne, cachi. “Ho deciso di cambiare metodo per avere un maggior controllo sulla fermentazione e non disturbarla con i continui rabbocchi. Non è detto che seguire la tradizione sia sempre la scelta migliore; però, devo dire che ci sono anche ottimi aceti fatti con la madre”, spiega mostrandosi più “morbido” degli altri su questo tema.
Ognuno degli Amici Acidi ha d’altronde il suo carattere, proprio come gli aceti che producono. Uniti però – oltre che dalla bottiglia da 50ml adottata da tutti, con il vaporizzatore per permettere di dosare e valorizzare al meglio la parte aromatica, restituendone su ogni piatto la fragranza olfattiva – dal comune obiettivo di portare l’aceto fuori dall’insalatiera e conferirgli nobiltà, ruolo, complessità.
a cura di Luciana Squadrilli
foto di Modestino Tozzi
Articolo uscito nel mensile di febbraio del Gambero Rosso. Il numero lo potete trovare in edicola o in versione digitale, su App Store o Play Store
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