Farro, orzo, miglio, riso: i cereali sono onnipresenti in cucina, elemento fondamentale per una sana alimentazione e per preparazioni gustose sia in inverno che in estate. Se nelle giornate più fredde non c’è niente di meglio di una buona zuppa, quando le temperature si alzano la risposta giusta è sempre un’insalata fredda mista. Ma oltre ai cereali, ci sono anche quinoa, amaranto e cous cous, alternative perfette per i piatti dell’estate.
Quinoa: la “madre di tutti i semi”
Spesso erroneamente considerata un cereale, la quinoa appartiene in realtà alla famiglia delle Chenopodiaceae, la stessa degli spinaci e le barbabietole. Un alimento antico nato nei territori delle Ande circa seimila anni fa e ancora oggi coltivata principalmente nell’America del Sud a oltre tremila metri di altitudine. La pianta ama le temperature fredde ed è molto resistente: si adatta a terreni pietrosi e aridi e non teme la carenza d’acqua. Il 2013 è stato dichiarato dalla FAO come Anno Internazionale della Quinoa, proprio per sottolineare il suo ruolo fondamentale nella lotta alla malnutrizione e la fame in tanti Paesi del mondo. Si tratta, infatti, di una risorsa alimentare preziosa, oltre che di una custode della biodiversità (ne esistono 200 diverse cultivar). Non a caso gli Inca la chiamavano chisiya mama, che significa “madre di tutti i semi”.
Quinoa: proprietà e usi in cucina
Priva di glutine, la quinoa produce dei semi amidacei utilizzati come sostentamento, ricchi di fibre, minerali, vitamine e proteine. Presenta, inoltre, un buon apporto di calcio, fosforo, ferro, magnesio, zinco, mentre è del tutto assente il colesterolo. I suoi impieghi in cucina sono diversi: è una buona base per insalate fredde o zuppe calde, ma anche per preparare burger vegetali, polpettoni e crocchette. Si può, inoltre, fare il latte di quinoa in casa, lasciandola ammollare e poi frullando il tutto in acqua (circa 1 litro per ogni 70 grammi): una volta filtrato, il liquido ottenuto rappresenta una valida alternativa per chi soffre di intolleranza al lattosio o ha scelto di seguire una dieta vegana. Per cucinarla, basta lavarla e tostarla in padella con un po’ d’olio, aggiungendo poi l’acqua (il doppio del peso della quinoa) e lasciando cuocere a fuoco medio finché i semi non avranno assorbito il liquido.
Amaranto, la pianta degli Incas e gli Aztechi
Una pianta erbacea appartenente alla famiglia delle Amarantacee, originaria dell’America latina ma che ha fatto ben presto il giro del mondo, trovando terreno fertile soprattutto in Oriente, in particolare in Indonesia e in Cina. L’amaranto è ricco di ferro, proteine, fibre, non contiene glutine ed è quindi adatto a chi soffre di celiachia, ed ha un buon apporto energetico. Dalla pianta si ricavano anche l’olio e le foglie, che possono essere consumate, mentre i fiori di colore rosso non sono commestibili. Curiosità: Incas e Aztechi consideravano l’amaranto un fiore sacro e lo utilizzavano in molto rituali propiziatori. È soprannominato anche il “fiore dell’amicizia”, per via dell’etimologia del nome (dal greco amàrantos, ovvero “che non appassisce”), termine legato alla durata delle infiorescenze che si protraggono dal mese di luglio fino a ottobre.
Amaranto in cucina: pane, pasta, dolci
Gli utilizzi in cucina sono svariati: si possono preparare zuppe oppure farce per verdure o involtini di carne, o ancora lo si può sostituire al cous cous e condire con verdure e legumi, spezie ed erbe aromatiche. Unito alla farina, crea poi un impasto originale e alternativo per la pasta fresca, ma può anche rappresentare l’alleato ideale per panature croccanti e saporiti o per la preparazione del pane. Ma non solo salato: l’amaranto può essere aggiunto a barrette ai cereali o biscotti dolci e, se ridotto in polvere, usato per sostituire parte della farina per la realizzazione di torte e crostate. Per prima cosa, però, l’amaranto va lavato e bollito in una quantità d’acqua pari al triplo del suo peso, per circa 30/40 minuti.
Cous cous, dal Maghreb all’Europa
Una specialità originaria del Maghreb e in Italia diffusa in Sardegna, Toscana e Sicilia: la storia del cous cous – granelli di semola cotti al vapore – si perde nella notte dei tempi. Uno dei primi riferimenti scritti si trova nel libro di cucina della Spagna musulmana del XIII secolo, il Kitāb al-tabīkh fī al-Maghrib wa l-Andalus, che annovera una ricetta per il cous cous. Ma il prodotto si diffuse rapidamente in tutto il mondo: veniva consumato nel sultanato di Granada dei Nasridi, ad Aleppo e in generale in tutto l’occidente islamico. In Europa, invece, compare all’inizio del Seicento (il viaggiatore Jean Jacques Bouchard scrive di averlo mangiato a Tolone nel 1630) e oggi è un prodotto conosciuto e consumato un po’ ovunque, specialmente l’estate a mo’ di insalata fredda.
Il cous cous in Italia e il cùscusu alla trapanese
Fra le ricette più popolari della Penisola, il cùscusu alla trapanese: se ne legge anche nel ricettario di Maestro Martino, che parla della “cemolella ciciliana”, una polentina morbida realizzata con le grane di semola ancora bagnate. A differenziare i diversi cous cous italiani, in qualsiasi caso, è il condimento: pesce nel Trapanese, la parte di Sicilia dove si è maggiormente diffuso, carne di pecora o verdure in Sardegna, verdure e polpettine di carne nella provincia di Livorno. In Sicilia, c’è poi l’antica variante dolce, fiore all’occhiello delle monache benedettine del Monastero di Santo Spirito di Agrigento.
a cura di Michela Becchi
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