Er nonnetto e er fusajaro, la caldarrostara e l’olivaro. È il ritratto di una Roma sparita, che vive ancora nella memoria delle generazioni passate. Un carretto, un baracchino sgangherato, un grido per richiamare i bambini fuori la scuola: caramelle, fusaie (i lupini), bruscolini… si vendevano prodotti a basso costo, a pochi centesimi, si gridava forte e si sorrideva ancora di più. Tra gli anni ’50 e ’70 il nonnetto era una figura fondamentale nella Capitale, così come tante altre oggi ricordate in vecchie fotografie sbiadite.
Er nonnetto, il venditori di dolciumi fuori la scuola
Certo, le condizioni igieniche non erano delle migliori, ma al tempo nessuno badava a questi dettagli. Non era un vero mestiere, quasi un’attitudine, ma ancor di più una necessità: erano sempre persone anziane a fare gli ambulanti in città, un modo per arrotondare in un tempo in cui arrivare alla pensione non era facile. Che poi, non erano neanche veri carretti: alle volte si prendevano delle semplici carrozzine, ci si fissava sopra una bacheca o uno sportelletto di vetro, poi si distribuivano i dolcetti sopra alla buona. I bambini impazzivano per i pescetti di liquirizia, vera specialità dei nonnetti: nel gruppo Facebook Memorie di Roma (da seguire!) si trovano tanti scatti dell’epoca, come quello in apertura, alla Scuola Elementare Enrico Fermi a Tor Pignattara, datata 1970.
Il castagnaccio, i mostaccioli e le caramelle
I pescetti erano tra i più gettonatti, ma c’erano anche i lacci o le more, e poi i mostaccioli, rettangoli di frolla dura come il marmo, alle volte anche le caramelle. Lo ricordano i signori di oggi, i bambini di un tempo che sui social riscoprono ricordi in comune: immancabili erano i lupini, che a Roma si chiamano ancora oggi fusaie (fusaje, a essere precisi), e poi i mitici bruscolini, i semi di zucca abbrustoliti.
Della storia di questa antica tradizione non c’è traccia, bisogna affidarsi ai racconti di chi ha vissuto quell’epoca: Nello Panzini sul gruppo Facebook scrive del castagnaccio, che non ha nulla a che fare con la torta toscana, piuttosto era una specie di lecca-lecca di farina di castagne, e poi le caramelle chiamate «signorine». Tutto finiva nei «cartoccetti, dove i nonnetti mettevano olive, fusaje, bruscolini… che non si rompevano, permettendoti addirittura di leccare il liquido avanzato», quell’acqua «giallo paglierino» poco rassicurante, ma che al tempo era tutto.
Si aggiravano fuori le scuole, ma anche davanti ai mercati rionali, all’ingresso dei cinema, «ogni tanto a dare una mano al nonnetto ci andava la moglie» continua Nello, «non perdevano occasione per litigare e insultarsi così, pubblicamente». Figure folcloristiche con un linguaggio tutto loro, frasi passate alla storia e rimaste impresse nella mente dei bambini degli anni ’60, quel senso dell’umorismo tutto romano: «Se vede che ce tieni… so l’altri che nun ce tengheno a vedette», o ancora «potessi diventa’ ‘na farfalla, così campi un giorno solo».
Er fusajaro e i cartoccetti da dieci lire
Altra figura mitica – e quasi mitologica: er fusajaro. «Ce vòi er sale?» chiedeva sempre con la voce bassa, come racconta Franco Sanandrea. Dieci lire a cartoccetto, rigorosamente di cartapaglia gialla. Oltre alle fusaje poi c’erano olive, noccioline e bruscolini (il repertorio, più o meno, era sempre lo stesso). Alcuni erano particolarmente famosi, come quello di Prati, che a metà anni '50 si fermava davanti al cinema Doria.
E ancora Peppe er Fusajaro, una celebrità sulla Prenestina, da Torpignattara a Centocelle girava con la sua biciletta gridando «fusaje dorciii». Un borsalino in testa, il sacchetto di lupini a fianco, e tanto fiato in corpo da far invidia a uno sportivo. A Centocelle, poi, c’era anche il cocomeraro (altra figura quasi scomparsa), quello in Piazza Mirti, all’angolo con via dei Platani, gettonatissimo in estate, là dove «passava ancora il trenino della Stefer», come racconta Cinzia Morgante.
La caldarrostara e l'olivaro
Non mancavano le donne. Le nonnette, ma soprattutto le caldarrostare: un cartoccio di castagne arrosto nelle mattine fredde era una mano santa per i più piccoli, che erano soliti tenerle in mano per scaldarsi durante il tragitto da casa a scuola. E così come c’era il fusajaro, c’era anche l’olivaro (famoso era quello di Ponte Garibaldi, in un passato ancora più lontano, alla fine degli anni ’30): stesso obiettivo, solo più olive, ma poi dal carretto malandato tirava fuori, all’occorrenza, anche dolciumi e lupini. Era tutto un po’ confuso, i prezzi variavano a seconda del momento, non c’era un menu e meno che mai una licenza. Non esistevano regole né norme igieniche, la piazza era di tutti, ma ognuno rispettava la propria zona d’appartenenza. Era l’essenza più pura della romanità, quella schietta e con poche pretese, grossolana e a tratti un po’ grezza, ma sempre sincera. Una Roma andata, dimenticata, in cui bastavano poche lire per comprare un attimo di pura felicità.
Foto di apertura di Sandro Bardaro, dal gruppo Facebook Memorie di Roma