L’oceano Atlantico settentrionale rimase un po’ sorpreso quando, entrando nel porto di Reykjavík nell’agosto 2004, si imbatte in Bill Clinton.
L’ex presidente passeggiava lungo il pontile scricchiolante del porto con una camicia azzurra, un golfino blu, i capelli scompigliati dal vento quasi tiepido – non tiepido – dell’estate nordica.
Quell’anno l’Unicef aveva organizzato una conferenza di beneficenza nella capitale islandese, mobilitando relatori da tutto il mondo, spedendo inviti su carta intestata, affittando barche e hotel… ma senza tenere conto di quel dettaglio: quel giorno, sul pontile, Bill Clinton aveva fame.
Clinton e il pragmatismo americano
Se si dovesse scegliere “IL” valore americano cercando tra qualsiasi possibile valore americano, ce n’è uno che più di tutti gli altri traccia la coordinata dal cowboy all’astronauta: la praticità.
In concreto: devo conquistare il West? Trovo un modo per conquistare il West.
Devo andare sulla Luna? Trovo un modo per andare sulla Luna.
E quel giorno dell’agosto 2004 per niente al mondo Bill Clinton e la sua americana praticità avrebbero sprecato mezz’ora di tempo per trovare posto in qualche casupola con cucina tra quelle dei pescatori del porto, ordinato una zuppa, aspettato che arrivasse, drenato con il cucchiaio i pezzi di merluzzo e di halibut, bevuto la zuppa rimasta, pagato il conto, scansato marinai ubriachi fino all’uscita…
Bill Clinton cercava praticità.
E la trovò.
Trecento metri dopo la fine della banchina.
Il chiosco di Jón Sveinsson
Negli anni '60, in una piazzetta riparata dal vento ma non così tanto, il signore Jón Sveinsson decise che avrebbe aperto un chioschetto per vendere hot-dog.
Non fu una scelta dettata dalla passione: Jón aveva un cancro che gli impediva di fare il marinaio come praticamente tutti quelli che conosceva e così dovette ripiegare su un altro mercato.
La sua famiglia già faceva panini, dal ‘37, due strade più su, ma lui aveva voglia di aria nuova, di cambiamento: chiamò il baracchino “Bæjarins Beztu Pylsur”, letteralmente “i migliori hot dog della città”.
Passavano gli anni e gli Sveinsson migliorarono prima un dettaglio, poi un altro: si costruirono artigianalmente la griglia per la cottura della carne – a Jón non piacevano quelle industriali – poi passarono a studiare la miscela di carne da usare per i wurstel.
Trovarono i sapori che cercavano nell’agnello islandese allevato su erba, con aggiunta di macinato di manzo e di maiale. Scelsero i condimenti: remoulade di cetriolini sott’aceto, senape, ketchup. Cipolla fresca, cipolla fritta. Da bere Coca-Cola, latte al cioccolato, Appelsín (l’aranciata islandese).
Tavolini e rastrelliere porta hot-dog
Fu la figlia di Jón, Guðrún, a decidere un giorno di mettere i tavolini monogamba in legno tutto intorno al chiosco: fu “L’IDEA”, per quanto sembri banale.
La piazzetta si riempiva sempre di più, quest’eco fissa: “ein með öllu!”, “ein með öllu!”,“uno con tutto!”.
Ma Guðrún non si fermò qui: notò che chi prendeva un hot dog e un bicchiere di Coca-Cola poi non aveva più mani per tenere altro e se avesse voluto fare un bis avrebbe dovuto rifare la coda da capo. Quindi piuttosto, scoraggiato e affamato, se ne andava via.
La soluzione che idearono gli Sveinsson fu: rastrelliere in miniatura porta hot-dog.
Le posizionarono su ogni tavolino, così che chiunque ci potesse stipare due, tre hot-dog alla volta, da mangiare uno dopo l’altro, in pace.
Questo fino a quel giorno d’estate del 2004, quando Clinton avvistò il chioschetto e, tutto sorridente, cominciò trotterellarci incontro.
Profumi incantatori per il Presidente
Il profumo di carne calda, i tavolini a pedana monogamba tutt’intorno al baracchino, gli hot dog fumanti sulla griglia, i brick di latte al cioccolato e i bicchieroni di Coca-Cola: tutto era invito, malìa.
Un sortilegio però a cui l’agenda colma di impegni e la scorta dell’ex-presidente sembravano essere immuni.
E proprio quando mancano pochi passi al bancone dove si sceglie la farcitura del panino ecco una chiamata, un segretario solerte, un impegno improvviso: la fame di Bill Clinton sembra da rimandarsi, deve andare.
Clinton provò quel giorno la stessa sensazione che scosse Ulisse legato all’albero della sua nave, senza tappi alle orecchie, ascoltando il canto della prima sirena.
Anche qui ce n’era una. E urlava.
Il richiamo di Mæja
Si chiama Mæja, 45 anni di servizio da Bæjarins Beztu Pylsur.
Una signora bionda, occhi azzurri: si è accorta che l’ex-presidente dovrà rimandare il pranzo e lo chiama a sé, a gesti, con tutta la delicatezza irruenta di una donna islandese di mezza età.
Soave come una sirena della baia di Ieranto, ma a modo suo: il resto è leggenda.
La foto di Clinton, hot-dog in mano, in piedi accanto a Mæja fece il giro del mondo: l’anno dopo gli hot-dog più buoni di Reykjavík erano in TV con No Reservations di Anthony Bourdain e poi i Metallica, Ben Stiller, Kim Kardashian.
La fortuna di Bæjarins Beztu Pylsur
Oggi Bæjarins Beztu Pylsur è più di un simbolo, è cultura, storia, cronaca: quando nel 2015 i loro hot-dog passarono da 200 a 400 corone islandesi (2,70 circa), finirono sui giornali.
Guðrún ha ceduto la direzione al figlio, Baldur, e le sedi ora sono due, la nuova è all’aeroporto della capitale islandese. Ma potendo andare, scegliete la sede storica: gli hot-dog vendono sempre bene, il via vai di food blogger ingrossa la fila, lo shop online spedisce felpe brandizzate in tutto il mondo.
Eppure.
Eppure, se un giorno vi capiterà di passeggiare su quella banchina, verso la piazzetta, con il vostro latte al cioccolato in mano, vi accorgerete che non sarà neanche l’hot-dog migliore della vostra vita.
Neanche uno favoloso, “solo” buono.
Serve però la fortuna di avere la sfortuna di essere islandesi in un giorno islandese, quando il cielo si spegne e il sole pallido sparisce dietro il freddo che riempie ogni cosa.
La pancia è vuota, il vento vi strappa la faccia.
È in quel momento che vi accorgerete quanto sia prezioso avere a disposizione una rastrelliera per hot-dog.