Happy Hours, ore felici da trascorrere insieme a un cocktail, un buon vino con gli amici sgranocchiando qualcosa di sfizioso. È il momento dell’aperitivo. Ma come nascono queste ore liete? Andiamo a spulciare un po’ di materiali e vediamo che dietro l’aperitivo, in realtà ci sono ore non del tutto felici. Anzi.
Il termine “aperitivo” deriva da “apritivo”, con il significato di aprire, ma non un pasto, come molti credono. La sua funzione principale era quella di sbloccare le ostruzioni, facilitare la circolazione e l’espulsione degli “umori” corporei, una visione dettata dalla medicina.
Primo fu "l’apritivo"
Per capire cosa fosse un “apritivo” bisogna fare un salto indietro, alle teorie greco-romane sul funzionamento del corpo umano. Ippocrate nel IV secolo a.C., poi Galeno nel I secolo d.C. applicarono la teoria degli umori alla fisiologia umana, basata sui quattro elementi fondamentali (aria, acqua, terra e fuoco) che, secondo la filosofia antica erano alla base di tutto ciò che ci circonda.
Lo squilibrio degli umori all’interno del corpo era la causa di ogni patologia che poteva essere prevenuta o curata con la dieta e con la medicina, due campi che si compenetravano intimamente. L’alimentazione era il primo rimedio e gli alimenti venivano usati per riequilibrare gli umori, per cui i confini tra cibo e medicina erano praticamente indistinguibili.
Farmacologia e alcol
I malesseri fisici di varia natura potevano essere causati dalla cattiva circolazione degli umori che si accumulavano e ristagnavano in varie zone del corpo. Una delle patologie più comuni era chiamata “idropisia”, ovvero la presenza di liquidi nelle cavità toraciche e addominali. Oggi distinguiamo diverse cause alla base di tali sintomi, tra cui gravi disfunzioni cardiache o epatiche, mentre per la medicina ippocratica, ciò era dovuto alla mancata espulsione degli umori in eccesso. Ed è qui che entrano in gioco gli “apritivi” che avevano il compito di liberare le vie ostruite e ripristinare la salute. I rimedi potevano essere svariati e interessavano il campo della medicina in senso stretto, ma anche quello della nutriceutica che, come abbiamo visto, erano intimamente legati. Uno dei metodi più usati per somministrare i farmaci era attraverso il vino e ce ne parla già Plinio il Vecchio nel I secolo d.C. nella sua Naturalis Historia.
I vini medicati
Scopriamo così che i vini medicati erano all’ordine del giorno e venivano realizzati con diverse erbe officinali. A volte le piante venivano aggiunte al mosto in fermentazione, altre volte poste in infusione nel vino (come si fa ancora oggi per i vermouth), ma il metodo più singolare consisteva nel piantare alcune erbe officinali, come l’elleboro nero e la scammonea – due potenti lassativi vegetali altamente tossici – vicino alle radici delle viti, in modo che ne assorbissero i principi attivi.
Una pianta molto usata, già in epoca romana, era l’assenzio, dal quale si otteneva l’absintite. I suoi composti amaricanti erano particolarmente apprezzati, al punto che, nel corso dei secoli, è diventato la base vegetale per una tipologia di vini medicati che prende il nome dalla parola tedesca che indica l’assenzio: wermut.
Genziana: l'assenzio miracoloso
Oltre mille anni più tardi, nel 1304, il Ruralium Commodorum di Pier de’ Crescenzi, ci conferma che l’assenzio continuava a essere usato per realizzare vini medicati, come altre piante officinali dal gusto spiccatamente amaro. Tra queste, la radice di genziana, tuttora usata nella confezione di molti liquori come l'Amaro Sibilla, il Fernet Branca, l'Aperol, nonché il celebre liquore alla genziana abruzzese. L’autore medievale attribuisce alla genziana poteri quasi miracolosi che non ci aspetteremmo: se bevuta con il vino può curare le persone dopo una caduta, soprattutto se si sono procurate delle escoriazioni, inoltre cura le punture di scorpione, i morsi di serpente e dei cani rabbiosi. In questo caso si consigliava di assumerne 2 once (circa 60 grammi!) con il vino.
Quando lo ordinava il dottore
Molti altri vegetali erano considerati “apritivi”, inclusi la camomilla, il levistico (sedano di montagna) e perfino le pesche di cui il poeta rinascimentale Francesco Berni dice “son le pesche apritive e cordiali, saporite, gentil, ristorative, come le cose che hanno gli speziali”. Anche il vino, tra le altre cose, era considerato un naturale “apritivo”: favoriva la digestione e stimolava l’appetito. Ma le sostanze impiegate potevano avere anche effetti molto più drastici. È sufficiente sfogliare i libri di farmacologia del Seicento per trovare ricette di vini aperitivi dalla potente azione diuretica e lassativa. Felice Passera frate cappuccino e speziale dell'ospedale di Brescia, nel 1688 fornisce una ricetta di un “vino medicato aperitivo” contenente senna orientale, polipodio quercino, gialappa indiana, colchico e cremor tartaro: praticamente l’intera gamma dei lassativi conosciuti all’epoca, alcuni dei quali potenzialmente tossici. Per assicurarsi un effetto completo, la ricetta prevedeva anche radici di borragine, asparago, prezzemolo, agrimonia e cetracho che sono diuretici. Infine, limatura d’acciaio e bucce di cedro, per non farsi mancare nulla. Il tutto veniva macerato e infuso in “vino generoso” da somministrare all’occorrenza.
Insomma, l’aperitivo non era esattamente qualcosa da bere il sabato sera con gli amici.
Dal medico alla cucina
Tra Sei e Settecento la medicina e la farmacopea compiono passi decisivi. Si sperimentano nuovi rimedi “apritivi” dissociati dal vino, come il mercurio che sembrava avere mirabolanti effetti. Secondo le teorie dell’epoca, grazie al suo alto peso specifico, era in grado di penetrare in profondità nelle cavità del corpo, liberandole dalle ostruzioni.
Forse non si può considerare un vero e proprio progresso della medicina, ma nonostante questo, le varie sperimentazioni permisero al vino aperitivo di liberarsi dalla connotazione curativa, sebbene non la perse mai del tutto.
Nella seconda metà del XVIII secolo la strada ormai era segnata e le ricette del vermouth stavano passando dai ricettari farmacologici a quelli culinari.
L'invenzione del wermuth
Non stupisce di trovare un medico tra i primi che descrivono la materia. Parliamo di Giovanni Cosimo Villifranchi che scrive la sua Oenologia toscana nel 1773 dedicando diverse pagine ai vini “composti, stomatici o medicinali”, chiamati wermuth.
Si tratta di vini bianchi, naturalmente dolci e generosi (oggi diremmo corposi) composti da 2/3 di trebbiano fiorentino e perugino e 1/3 di moscato. L’autore, fedele alla sua professione, non dimentica di sottolinearne gli effetti salutistici: “Queste specie di Vini hanno tutte, chi più, chi meno, secondo la dose degl’ingredienti infusi la virtù di rimediare a molte malattie dello Stomaco, e del Fegato, e sopra tutte quante a quelle state considerate dagl’antichi provenire da un’intemprie fredda. Dissipano i flati, digeriscono le crudità, apportano dell’appetito, e aiutano la concozione dei cibi nel ventricolo: uccidono i vermi, resistono alla purrescenza degli umori, favoriscono la circolazione dei sughi alimentari e nutritivi”.
Svariate le botaniche utilizzate: l’assenzio ovviamente, ma anche genziana, enula, coriandolo, ginepro, scorze d’arancio, grana paradisi, cardamomo, maggiorana, timo e così via. Scompaiono, o sono presenti in misura estremamente ridotta, le erbe officinali dagli effetti lassativi e diuretici, mentre prendono il sopravvento quelle aromatiche.
Il nuovo vermouth di Carpano
La nuova bevanda corroborante era appena stata inventata e aspettava già di essere apprezzata dal grande pubblico. Il successo fu questione di pochi anni e avvenne nell’attiva e ricca Torino grazie al geniale Benedetto Antonio Carpano. Originario di Bioglio Biellese, si era trasferito nel capoluogo Piemontese e lavorava come aiutante in una liquoreria posta sotto i portici di piazza Castello. Addizionando con erbe e spezie un moscato dolce riuscì a creare un proprio vermouth destinato a incantare i torinesi. La piccola bouvette divenne presto un ritrovo per tutta la Torino bene. Correva l’anno 1786 ed era stato inventato l’aperitivo, qualcosa di più di un vino: una vera e propria moda.
Se all’inizio era un rito riservato agli aristocratici e agli esponenti dell’alta borghesia, con il passare degli anni divenne un’abitudine adottata dai più disparati ceti sociali che si fermavano a sorseggiare un bicchiere all’uscita dal lavoro prima di rincasare, oppure avviandosi a cena o a teatro.
Cent’anni dopo, nel 1898, ce lo racconta un testimone d’eccezione, Edmondo de Amicis: “E come Parigi ha l'ora dell'assenzio, Torino ha l’ora del vermut, l’ora in cui la sua faccia si colora e il suo sangue circola più rapido e più caldo. Allora le scuole riversano per le strade nuvoli di ragazzi, dagli opifici escono turbe di operai, i tranvai passano stipati di gente e le botteghe dei liquoristi si affollano”.
Torino e il tramezzino
Con sorprendente tempismo, negli stessi anni a Londra veniva partorita un’altra novità gastronomica destinata a cambiare il nostro modo di mangiare. John Montagu, IV conte di Sandwich (1718 -1792) trova una soluzione geniale per consumare i pasti alla scrivania – o al tavolo da gioco, come vogliono alcuni – senza usare le posate. Chiudendo il cibo tra due morbide fette di pane aveva inventato il primo panino della storia che, non a caso, prende proprio il suo nome. Chissà, forse l’idea era già venuta a qualcun’altro, fatto sta che il conte di Sandwich ne lanciò la moda nella capitale britannica.
Nel 1772 lo scrittore francese Pierre Jean Grosley descrive già questo particolare oggetto gastronomico nella sua guida A Tour to London, specificando che era il pasto prediletto di John Montagu.
Il tramezzino torinese non è altro che la semplice importazione del celebre sandwich e, con ogni probabilità, arriva nel capoluogo piemontese nella prima metà dell’Ottocento ad opera di Ralph D’Abercromby ambasciatore d’Inghilterra a Torino. Il suo cuoco, Francesco Chapusot, è infatti il primo a citarlo in Italia nella sua Cucina sana, economica ed elegante del 1846.
I caffè e botteghe di liquori di Torino adottarono ben presto questa bella invenzione e ne fecero un loro vanto, tanto da intestarsene anche la paternità.
Dall’aperitivo all’apericena
Forse Torino non ha inventato il tramezzino, ma qualcosa era successo: al rito del vermouth era stato associato qualcosa da mangiare senza posate seduti in un piccolo tavolino, o appoggiati al bancone di un caffé. Non un vero pasto, ma uno spuntino che rompeva il digiuno pomeridiano e consentiva di andare a cena piuttosto tardi, come si addiceva ai rappresentanti della classe più agiata.
Se in precedenza i ritrovi sociali erano connotati dal rito del caffè o della cioccolata in tazza, ora era il momento dell’aperitivo. Non è semplice ricostruire cosa si mangiasse in queste occasioni, esclusi i tramezzini come abbiamo visto, ma le idee non mancavano. I ricettari ottocenteschi sono zeppi di piccole portate fredde, dette “di credenza” che venivano già utilizzate nelle cene eleganti, dai canapè, ai crostini, passando per i pasticcetti salati, piccole fritture, fino ai vari rifreddi.
Quando l'aperitivo diventa cena
Ma il cibo non è mai stato il tratto principale dell’aperitivo, semplicemente perché era solo una tappa verso una cena ben più sostanziosa. Le parti si sono invertite in epoca molto recente, quando il momento di socialità dell’aperitivo è stato prolungato al punto da togliere importanza al pasto serale. Anziché puntare alla tarda sera, il momento conviviale viene anticipato, permettendo all'aperitivo di assumere un peso specifico diverso. Un modo per incontrarsi e bere qualcosa, ma anche l’occasione per mangiare e, in qualche caso, sostituire la cena.
Il termine “apericena” stride ancora alle orecchie, ma in fondo è una crasi corretta, come quella del brunch che unisce breakfast e lunch. Il neologismo compare nei primi anni del nuovo millennio e si sposa alla perfezione con la nuova moda lanciata a Milano a base di buffet e happy hour.
Forse la parola ha perso un po’ di fascino ultimamente, ma il concetto della cena in piedi composta da piccole portate, magari consumata in piedi e accompagnata da vini o drink poco alcolici è più attuale più che mai. Leggerezza e semplicità sono due parole d’ordine che accompagnano la storia dei pasti da oltre un secolo e l’apericena è l’ultimo esito di una lunga evoluzione.