Sembra un secolo, sono "solo" dieci anni. Ma al tempo stesso è come se fosse ieri. La figura di Stefano Bonilli, giornalista-editore con una visione d'avanguardia e fondatore di Gambero Rosso, a dieci anni dalla morte ci impone una riflessione profonda sulla "sua creatura" e soprattutto sul mondo di cui scriviamo e di cui lui è stato un grande, grandissimo appassionato. Cibo, vino, viaggi. Potremmo definirli semplicemente passioni, cose da approfondire nel tempo libero. Eppure, sono cose che fanno anche una bella fetta di Pil e che al tempo stesso ci ricordano le nostre radici, la cultura di cui siamo impastati, che si tratti di main stream così come di vezzi snob che spesso accompagnano il racconto, le polemiche, le storie da questo strano mondo.
Tutto cominciò a Samboseto
Stefano era nato nel Veronese, ma si considerava bolognese di adozione. Non è facile scrivere di lui, raccontare la sua vita e la sua storia professionale: come molti di noi, anche nel suo caso "pubblico e privato" hanno spesso, molto (troppo) spesso coinciso. La descrizione che lo scorso anno, per i 9 anni dalla morte di Stefano, ha scritto Marco Sabellico ricordando l'inizio della sua avventura golosa è un po' il riassunto di una vita, l'alpha e l'omega di una passione, di una epifania: «Folgorato sulla via di Damasco da una cena preparata da Mirella e Peppino Cantarelli nell’omonima locanda a Samboseto di Busseto (PR), intuì che l’enogastronomia non era solo una questione da ghiottoni, ma un settore della nostra cultura materiale che interessava migliaia e migliaia di consumatori curiosi e golosi in un momento di grande rilancio della nostra cucina e della nostra enologia».
Attacca così il racconto della scintilla che a fine 1986 diede vita all'inserto Gambero Rosso, inserito nel quotidiano Il Manifesto. Poco più di due anni dopo quel foglio (che fece scandalo, con l'editoriale titolato "I Neoforchettoni") diventò un allegato autonomo. Dopo ancora due anni il Gambero prende il volo con le sue ali: in edicola da solo, una copertina pop disegnata dal grande grafico Piergiorgio Maoloni - "l'architetto dei giornali" lo ha definito Angelo Rinaldi, suo allievo e art director di Repubblica - con il disegno di un pugno di spaghetti che annunciava la prima grande "prova del fuoco" per il simbolo della pasta italiana e lo "strillo" di un'altra creatura pop dedicata ai vini quotidiani, il Berebene.
Gambero Rosso: dal Channel all'Academy
Da allora, il viaggio non si è più interrotto. Sono stati tanti e diversi gli scossoni, le prove e anche le querele: una per tutte, la denuncia di Babington, la lussuosa casa da tè romana, che chiedeva soldi e condanna per una stroncatura: una battaglia vinta da Stefano e dal Gambero e il principio della libertà e del dovere di critica riconosciuto anche per chi scriveva di "piccole cose". Piccole forse allora, ma grandi in pectore. Tanto che il Gambero Rosso, di lì a poco, aprì la prima emittente televisiva dedicata esclusivamente all'enogastronomia e ai viaggi, il Gambero Rosso Channel. E addirittura un'intera città, la Città del Gusto, dedicata ai protagonisti dell'immaginario gaudente di tutti noi. Una Città dove si scriveva, si produceva informazione, dove si faceva teatro della cucina, dove si cucinava e si faceva formazione con l'Academy. E dove si fa tutt'ora: la prima sede era a Roma in via Enrico Fermi; l'attuale è a poca distanza, in via Ottavio Gasparri a pochi metri da Villa Pamphili.
Quando Stefano Bonilli sbattè la porta
Chissà se Stefano Bonilli, oggi, riconoscerebbe ancora quella che lui definì "una piccola nave pirata", il "suo" Gambero Rosso. Sicuramente, sarebbe fiero per il fatto che quell'avventura cominciata ai tre quarti del secolo scorso è sopravvissuta a tutto: anche alla sua uscita di scena quando sbatté la porta in disaccordo e in polemica con i nuovi investitori che salvarono la sua creatura dal crack (era il 2008); anche alla sua scomparsa fisica, nel 2014. Non possiamo sapere i suoi pensieri, ma conosciamo i nostri che con lui abbiamo lavorato per anni: quella "piccola nave pirata" che non è mai voluta diventare "corsara", ancora naviga nei mari sempre più affollati dell'enogastronomia italiana e continua a raccontare storie, protagonisti, sapori spesso ignorati dai canali mainstream e sconosciuti ai più, angoli di questo strano Paese che è l'Italia che ancora regala piccole scoperte di grande valore.
Gambero Rosso, un giornalismo fuori dai Palazzi
Non è piacevole, ma a questo punto non posso che passare alla prima persona. Quando nel 2000 arrivai alla scrivania di Stefano, ero un profugo da L'Unità: ci avevo lavorato per anni e non volevo rientrare in quella redazione dopo una devastante crisi. Mi ricordo che l'allora direttore - era Furio Colombo - mi chiese di tornare, ma gli diedi la mano e gli dissi di no, che la mia scelta sarebbe stata un'altra. Mi chiamò uno dei colleghi più grandi di me per dirmi che stavo facendo una follia, che la mia decisione era "sbagliata". Oggi, a distanza di quasi 25 anni, posso dire che non era sbagliata affatto. Perché il giornalismo di Stefano Bonilli, fuori dai canali ufficiali, senza agenzie di stampa, senza link coi Palazzi della Politica, senza nessuna rete, mi ha riconciliato con un mestiere che avevo pensato di abbandonare. E perché il Gambero Rosso, rivista che contribuisco a realizzare da 25 anni, ancora esiste: su carta e in digitale. E perché continuiamo a raccontare un pezzo d'Italia vero, autentico, profondo e appassionato, lontano dalla politica e dai Palazzi, con il nostro sguardo e senza pregiudizi. Sempre a bordo di quella "piccola nave pirata" che ha retto a diverse bufere. Buon viaggio, Stefano. Buon viaggio Gambero.