Come cambiano la spesa e la tavola ai tempi del riscaldamento globale

17 Feb 2025, 17:36 | a cura di
Il riscaldamento globale cambia le nostre vite, nel presente: ecco come mangiare, coltivare e fare la spesa per non soccombere

La crisi climatica cambierà le nostre vite innanzitutto come crisi alimentare: modificherà cosa mangeremo e come lo produrremo. Sta già accadendo. Il rapporto tra il riscaldamento globale e il cibo che mettiamo nel nostro piatto (e nel nostro bicchiere) è un circolo vizioso facile da spiegare, ma complesso da spezzare. I sistemi alimentari causano un terzo delle emissioni di gas serra: gasolio agricolo, metano dagli allevamenti intensivi, l’impatto della produzione di fertilizzanti, il trasporto, la refrigerazione. Per avere un senso delle proporzioni, se il cibo è quasi il 30 per cento delle emissioni, l’intera aviazione è solo il 3 per cento, l’intera Unione Europea solo il 7 per cento. Questi gas fanno aumentare le temperature del pianeta, alterano gli equilibri del clima, causano eventi estremi, siccità, alluvioni che danneggiano e rendono più difficile la stessa produzione di cibo, corresponsabile di questi sconvolgimenti.

Il riscaldamento in Europa è doppio che altrove

Non dobbiamo andare lontano nello spazio e nel tempo per cercare gli effetti di questo circolo vizioso: secondo i dati del servizio Copernicus, l’Unione Europea è il continente che si riscalda più velocemente, al doppio della media globale. In Europa, l’Italia è un cosiddetto hotspot climatico, epicentro di fenomeni diversi e in apparenza contraddittori, che stanno già facendo molto male alla nostra agricoltura: negli ultimi dieci anni ci sono stati 146 eventi estremi diversi (dati Legambiente), solo nell’ultimo hanno provocato 6 miliardi di euro di danni (secondo Coldiretti). Il 2024 passerà alla storia come l’anno più caldo mai affrontato dalla civiltà (e quindi dall’agricoltura) umana. Il record precedente era del 2023, siamo a +1.3°C nella curva di ascesa delle temperature, le emissioni di gas serra nel frattempo non sono calate nemmeno nell’anno che si è appena chiuso. Insomma, per la nostra tavola è davvero il momento di ripensare tutto.

Clima e tendenze: il cibo nei secoli è sempre cambiato

«Il cibo è sempre cambiato nel corso dei secoli, noi non mangiamo come i nostri nonni, che sicuramente non avrebbero gradito il sushi», spiega Veronica Vismara, una delle principali esperte di transizione alimentare in Italia. «Il problema è dover cambiare non perché nel corso dei decenni è cambiata la tua cultura ma perché quel prodotto non arriva più, non riesci più a comprarlo o non si riesce più a coltivare. Il supermercato sarà la nostra principale lente di ingrandimento su quello che perderemo a causa dei cambiamenti climatici». Insomma, è davanti agli scaffali che finalmente ci sveglieremo. Vismara ha guidato il tavolo sui sistemi alimentari degli Stati generali dell’azione per il clima, il coordinamento delle organizzazioni ambientaliste italiane, che a dicembre ha presentato il Libro bianco di proposte per una transizione equa, giusta e possibile. Sono trentatré idee per sei ambiti chiave, dall’energia alla mobilità. Sei di queste idee riguardano il cibo e, non casualmente, sono state le più difficili da scrivere.

«È difficile lavorare politicamente col cibo, perché entri nella casa, nel corpo, nella mente delle persone. Il cibo è sempre personale. Abbiamo visto come tanti hanno reagito alla prospettiva di un cambio nel tipo di motore dell’auto tra dieci anni, pensate come reagirebbe la società italiana a una proposta di alimentazione tutta vegana e a chilometro zero». Quell’alimentazione sarebbe sicuramente la migliore dal punto di vista del clima, ma ci sono troppe sfumature politiche e culturali da considerare per proporre una dieta universale per tutti per tutelare il pianeta.

Riscaldamento globale: cosa fare ora, da subito

Infatti le proposte degli ambientalisti italiani per allineare il cibo al clima partono dalla grande distribuzione organizzata, con una visione di riforma che probabilmente non piacerebbe alle grandi catene: lotta alle pratiche commerciali sleali, riduzione degli sprechi e aumento della trasparenza nei confronti del consumatore. Le altre proposte sono per una promozione e un’integrazione dell’agro-ecologia nelle politiche alimentari nazionali, con un reindirizzamento dei sussidi agricoli a queste pratiche di uso del suolo meno intensive, ma più attente alla biodiversità e al clima. Gli Stati generali chiedono anche una transizione degli allevamenti, con una riduzione della densità, del numero dei capi per ettaro e il miglioramento del benessere animale.

Per cominciare: meno mais e meno avocado

Il clima non è più un problema da affrontare al futuro, ma al presente. Come spiega Federica Ferrario, responsabile campagne della ONG Terra!: «Il 2024 ci ha mostrato un saggio degli sbalzi che ci aspettano nel futuro, con il nord che galleggiava nell’acqua e il sud che ormai quell’acqua non sa nemmeno più che aspetto abbia. Per le aziende agricole diventa sempre più difficile programmare le coltivazioni, ma anche avere un reddito costante». Nel frattempo assistiamo a una migrazione delle colture, che si spostano verso latitudini più adatte, correndo verso il nord della penisola, oggi sempre più adatto alla produzione di olio o di frumento. La Sicilia ha da tempo temperature adatte ai frutti tropicali, che stanno guadagnando latitudini e sono ormai stabili in Italia. Agli agrumi si sono affiancati e in alcuni casi sostituiti il caffè, il mango, l’avocado. «Ma proprio l’avocado può essere coltivato solo finché c’è disponibilità sufficiente di acqua e in Sicilia quest’anno l’acqua è stata un problema enorme – spiega Ferrario – Dobbiamo porci il problema di come usiamo le risorse. Per esempio, il mais è la seconda coltura più idroesigente dopo il riso, ma oggi lo usiamo soprattutto per produrre mangimi per gli allevamenti». Probabilmente, in un sistema che dovrà sfamare più persone con meno risorse, questo tipo di storture saranno sempre meno accettabili.

Ad alto rischio il riso italiano

Tutti gli esperti concordano su due aspetti. Il primo è che ogni ragionamento deve partire dalla scala globale e dall’interconnessione dei sistemi nazionali, perché nessun Paese, non importa quanto grande o remoto, può ambire a diventare autarchico. Una nuova ricerca del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici (CMCC) ha analizzato come si stanno evolvendo i 26 tipi di coltivazioni che rappresentano l’80 per cento del cibo a livello globale. La risposta è una mappa della nuova geopolitica del cibo, che il riscaldamento globale allontana dall’Equatore e sposta anno dopo anno verso il polo, con nuovi vincitori come la Russia e il Canada, per le quali si stanno spalancando milioni di ettari di nuovi suoli agricoli. Come spiega Maria Vincenza Chiriacò, ricercatrice senior del CMCC, «la coltivazione italiana più a rischio in questa nuova geografia del cibo è il riso, nonostante il tentativo di convertire la produzione in asciutto». E non è solo in Italia ad essere a rischio, il riso. L’altro aspetto di fragilità del sistema italiano che Chiriacò evidenzia è quello della vulnerabilità di una delle sue caratteristiche in teoria più virtuose: i distretti con le loro eccellenze locali. «Come nel caso della Xylella, il rischio è che arrivi un solo patogeno, trovi davanti a sé solo la coltivazione della specie che è in grado di attaccare e rischi di spazzare via tutto. Se trovasse un mosaico di specie davanti sarebbe diverso. I distretti sono economicamente efficienti, ma climaticamente deboli». La parola chiave è biodiversità.

Il nuovo consumatore: più consapevole

Il secondo aspetto fondamentale è che un indispensabile strumento di adattamento al nuovo clima è un consumatore più consapevole di quello che succede intorno a lui. Come spiega Chiriacò, «la primavera dell’anno scorso ha piovuto tantissimo, non abbiamo quasi prodotto frutta, perché i frutteti non riuscivano, non c’era abbastanza circolazione del polline. Sugli scaffali però il consumatore l’ha trovata lo stesso e magari non se ne è accorto nemmeno che c’era una crisi nazionale, perché veniva importata molto di più dall’estero». Il guaio è che cambiamento climatico è anche interconnessione delle sofferenze agricole nazionali, quindi non è detto che ogni anno ce la potremo cavare così.

Educazione al cibo e alla agroecologia

Il consumatore dovrà sempre di più porsi anche problemi da cittadino, ma la trasformazione non può essere scaricata sugli individui e sulle loro possibilità, sempre più limitate in un Paese dove i poveri assoluti sono raddoppiati. Come spiega Federica Ferrario, «L’educazione al cibo deve diventare centrale nelle politiche nazionali e deve procedere in parallelo con la modifica degli aspetti produttivi, con l’abbandono progressivo dei metodi convenzionali per lavorare sempre di più con modelli agroecologici perché, in questo contesto di clima che cambia, solo la biodiversità ci permette di avere delle carte in più da giocarci». Il senso è che l’agricoltura sta già cambiando, che noi lo vogliamo o no, al ritmo del nuovo clima. Questa trasformazione può essere governata oppure può essere subita, e può essere calata dall’alto oppure partecipata da tutte le comunità coinvolte, dagli agricoltori ai consumatori.

L’origine del cibo: premessa per la rivoluzione necessaria

Questa nuova rivoluzione del cibo non si potrà fare se, per usare le parole di Veronica Vismara, «non sappiamo da dove viene il prodotto che abbiamo nel piatto, come vengono coltivati i pomodori, che caratteristiche hanno gli avocado, se non abbiamo idea di quanto è preziosa e complessa la produzione di cibo. Siamo un Paese che vive tanto di agricoltura, siamo bravi a cucinare, siamo bravissimi a mangiare, ma la produzione non ci interessa abbastanza. L’agricoltura è diventata un lavoro separato socialmente, una categoria a parte, c’è stata una ghettizzazione di chi produce cibo». Questo è l’ultimo tassello della storia: le proteste dei trattori che hanno invaso le città di tutta l’Europa un anno fa e ne hanno indirizzato la storia politica possono essere lette in tanti modi diversi: erano populiste, contro la transizione, contro il Green Deal, manovrate da Orbán. Dentro c’erano effettivamente tanti fenomeni diversi, ma quello che le accomunava tutte era un manifesto di esistenza, la richiesta di non essere dimenticati e “ghettizzati” proprio mentre il riscaldamento dell’Europa sta cambiando tutto. Solo così, con un’alleanza tra chi produce e chi mangia, si potrà navigare l’aumento delle temperature che ancora ci aspetta.

linkedin facebook pinterest youtube rss twitter instagram facebook-blank rss-blank linkedin-blank pinterest youtube twitter instagram