È in un piccolo bistrot all’Aventino che Shaza Saker serve ai suoi clienti falafel appena fritti, hummus vellutato, una deliziosa crema di melanzane e altre bontà della cucina mediorientale. Ma la sua voce, mentre racconta con orgoglio il successo di Hummustown, è rivolta alla sua terra d’origine, dove l’eco della caduta di Bashar al-Assad, ormai ex presidente della Siria, si unisce alla paura per un futuro incerto. «Ne parlavamo questa mattina io e il mio team, tutti insieme», racconta Shaza al Gambero Rosso, «C’è felicità perché ci siamo liberati, ma anche terrore: chi ha preso il potere fa paura tanto quanto Assad».
La situazione in Siria raccontata da Shaza
Sette giorni sono bastati per abbattere un regime che per oltre mezzo secolo aveva dominato la Siria. I ribelli di Hayat Tahrir al-Sham (Hts), guidati da Abu Mohammad al-Jolani, hanno conquistato Damasco, decretando la fuga in pochissime ore di Assad, che dai giornali si apprende si sia rifugiato in Russia. Il collasso del regime è avvenuto con una rapidità impressionante, complice un esercito ormai sfibrato e privo di motivazioni. Le immagini delle ultime ore del regime hanno fatto il giro del mondo: soldati che abbandonano i loro avamposti, togliendosi le divise; check-point deserti; bandiere bianche sventolate in segno di resa. Un crollo che racconta di anni di diserzioni e di un popolo esasperato. «I miei familiari hanno vissuto senza luce, senza acqua», spiega Shaza. «Sono arrivati a dire: “Qualsiasi cosa è meglio di come siamo messi ora”».
Ma se il crollo del regime è stato rapido, le prospettive per il futuro sono tutt’altro che chiare. La Siria è oggi divisa in tre: una fascia occidentale controllata dai ribelli islamici, un nord-est nelle mani dei curdi e sacche centrali occupate dai seguaci dell’Isis. Al-Jolani, leader di Hts (un raggruppamento di milizie jihadiste) ha promesso tolleranza e convivenza, ma le modalità estremiste del gruppo alimentano i timori di chi in Siria non abita più, ma qui ha lasciato una parte della famiglia. «Festeggiare la caduta di Assad è naturale ora per i siriani», dice Shaza, «Ma c’è il rischio che il paese finisca come la Libia o l’Iraq: frammentato, senza ordine e in balìa di milizie». A tutto ciò si aggiunge distruzione e un vandalismo smisurato. «Mia cugina è rimasta bloccata nel corridoio di casa mentre vandalizzavano il distretto di polizia vicino. Rubavano scope, mattonelle, tutto quello che è armamento, uscivano ragazzi di 15 anni in kalashnikov».
Anche comunità internazionale, però, osserva con cautela. Gli Stati Uniti hanno annunciato attacchi mirati contro l’Isis per prevenire nuovi focolai estremisti, mentre la Russia si è assicurata che le sue basi militari in Siria siano protette. «Il futuro dei rifugiati non cambia», sospira Shaza. «I confini sono chiusi e i varchi armati impediscono qualsiasi fuga» prosegue tristemente.
Hummustown e le testimonianze dei rifugiati
Il progetto, nato nel 2017 come servizio di delivery di Shaza Saker, nata a Damasco da genitori siriani (ma vissuta quasi sempre a Roma) e impiegata alla Fao, e di Jumana, profuga siriana approdata nella Capitale, ha dato vita a Hummustown, che negli anni si è ampliato fino a includere un ristorante e un grazioso bistrot. Qui, Shaza, Jumana e i suoi collaboratori – rifugiati siriani, ma anche persone in difficoltà provenienti da altri paesi – preparano piatti deliziosi ogni giorno. «Non gli diamo solo il lavoro», spiega Shaza. Vengono aiutati con la lingua, con la burocrazia, con la vita quotidiana: «I nostri rifugiati lavorano qui per mandare soldi in Siria, perché chi non ha un parente fuori, muore».
«È facile criticare perché i siriani vogliono questo gruppo di ribelli, ma hanno fame, vogliono fare tutto pur di uscire dal dramma della povertà», spiega, sottolineando come il contesto di miseria abbia spinto molti ad accettare in questi giorni con grande speranza il gruppo jihadista capitanato da al-Jolani pur di sopravvivere, perché il peggio è già il presente che vivono. La percezione che si ha in Occidente è spesso distorta, afferma Shaza. «L’occidente vuole far sembrare al mondo che Assad è andato via e ce l’abbiamo fatta, ma la realtà è ben diversa», afferma. Gli ultimi rifugiati arrivati in Italia nel ristorante Hummustown sono due donne palestinesi e una siriana, ma la lista di attesa è ancora lunga, per questo Shaza lancia un appello: «Voglio riuscire ad assumere più rifugiati a lungo termine. Il ristorante deve ancora crescere per poter dare lavoro a più persone», spiega. Con un team di 15 impiegati, Shaza continua a lavorare per offrire un’opportunità di riscatto a chi è scappato dal conflitto. «Ci sono molti rifugiati che vagano intorno a noi ma lavorano sporadicamente, per guadagnare giusto i soldi per i loro parenti».
«È un momento di incertezza che fa male», conclude. Noi, insieme a Shaza e al suo team, guardiamo con timore al futuro della Siria. Ma nel piccolo ristorante di Roma, oggi, nonostante la mente va ai familiari, si continuano a servire hummus, pizza siriana e la deliziosa mutabbal (la crema di melanzane affumicate). La speranza è fatta anche di gesti semplici, di accoglienza e di condivisione.