In questo agosto afoso, la vendemmia a Menfi va avanti già da tre settimane. Nel comune agrigentino, enologi e agronomi sono rientrati di fretta e furia dalle vacanze perché non si poteva più aspettare. Il 18 luglio la cantina cooperativa Settesoli – oltre 6mila ettari di vigneto e più di 2mila soci – ha dato inizio alla raccolta con largo anticipo. C'è questo via vai di camion che scaricano le uve, ma il conferitore non andrà via prima di sapere quanto vale il suo carico, valutazione che si fa in base al grado babbo e all'acidità. L'intera comunità si regge da 50 anni sulla viticoltura e annate difficili come queste ultime - peronospora l'anno scorso, siccità quest'anno – fanno tremare i polsi. Perché in gioco c'è la stabilità di cinquemila famiglie.
Contro siccità e immobilismo dei mercati
Giuseppe Bursi, presidente di Cantine Settesoli - di cui fanno parte i brand Settesoli e Mandrarossa – ne è cosciente e da sette anni lavora affinché l'attività imprenditoriale tenga conto anche del valore sociale delle aziende (d'altronde parliamo di una cooperativa). Però molto c'è ancora da fare sulla “testa” dei soci – secondo Bursi – che si dicono comunità, ma che, forse, non si sentono tale. «Le faccio un esempio – spiega il presidente – abbiamo una cantina poco distante a Santa Margherita Belice che non raccoglie sempre l'uva sufficiente a riempire le presse e quindi tenerla aperta è antieconomico. I conferenti della zona però, ogni anno, pretendono che funzioni, mentre potrebbero semplicemente portare l'uva qui a Menfi. Si rispamierebbero tremila euro al giorno».
Presidente, lei parla di “fattore umano”. Cosa intende?
Parlo della fatica che fanno gli agronomi e gli enologi a tenere a bada così tante individualità, a convincerli a seguire un protocollo. Prenda questa vendemmia anticipata. Parte uno, vogliono partire tutti, ma i tempi di maturazione delle uve sono diversi. Si sviluppa una vera psicosi. Ecco allora che bisogna prendersi il tempo per dialogare con ciascuno di loro e fargli capire che portare l'uva in cantina non basta. Noi facciamo impresa e abbiamo come obiettivo quello di valorizzare il prodotto e al contempo di ridurre i costi.
Qual è il contesto in cui accadono queste cose?
Guardi, è una situazione oggettivamente non semplice perché so benissimo quali sono i problemi che hanno i soci. Con queste rese così basse c'è un prezzo dell'uva mediamente sui 50 centesimi al chilo: se fai cento quintali ci stai ancora dentro, ma se ne produci la metà non ne vale più la pena. Inoltre anche su di loro ricadono gli aumenti del gasolio, delle attrezzature, dell'acqua che non arriva perché il Consorzio idrico dice che non ce n'è e che le pompe si guastano di continuo. Se fossimo in Romagna, succederebbe la rivoluzione, qui invece diventano chiacchiere da bar”.
Ha accennato alla questione acqua e al problema siccità. Come sta reagendo Menfi?
Qui siamo fortunati perché il territorio ha molta acqua nel sottosuolo e poi c'è una gestione agricola accorta data proprio dalla presenza delle competenze legate alla cooperativa e al saper fare dei contadini. Poco lontano, nel giro dei prossimi tre anni, potrebbero essere abbandonati dai 10 ai 15mila ettari e penso al territorio di Trapani. In alternativa c'è chi ricorre ad altre colture, tipo l'ulivo, la cui presenza è in crescita anche da noi.
Più acqua vuol dire pure più resa che è una questione centrale per i conti aziendali
Io sono favorevole a un innalzamento delle rese, anche di 90-100 quintali per ettaro, che è poi la norma. Il nostro massimale invece è di 84, quanto quello del Brunello di Montalcino, ma una bottiglia di Brunello è venduta assai più cara di una di Catarratto. Addirittura l'anno scorso non abbiamo superato i 64 quintali. Così si rischia di andare in perdita. Noi siamo strutturati per lavorare 600mila quintali all'anno, nel 2023 ne abbiamo fatti solo 280mila. Certo, a pieno regime, una buona parte del vino andrebbe venduto sfuso, ma questo abbasserebbe i costi di gestione. L'alternativa qual è, fare quello che hanno fatto in tantissimi sull'isola l'anno scorso? Ovvero distillare? Noi ci siamo tenuti sul groppone le uve per un anno e le abbiamo vendute tutto sommato anche a un buon prezzo, correndo il rischio però.
Anche per questo nel 1999 nasce Mandrarossa, il brand Horeca delle Cantine Settesoli, per confrontarsi con la ristorazione e non solo con la Grande distribuzione come avviene con il brand Settesoli. Come è andata?
È andata che si fa ancora fatica a disgiungere Mandrarossa dall'idea non positiva che si ha, soprattutto nel Sud, delle cooperative e ciò penalizza il marchio. Ci si aspetta vini di basso prezzo. Noi riusciamo a offrire buone etichette a prezzi interessanti, ma offriamo anche condizioni che nessuno ha in Sicilia: 36 diverse varietà, variabilità dei terreni, impianti che vanno dal mare fino a 500 metri, impianti tecnologici avanguardisti, consulenti di primo ordine come Alberto Antonini. Il passo successivo è quindi migliorare ancora di più la qualità di questi vini e di stringere rapporti con chi è più forte sul mercato.
A che strategie in particolare sta pensando?
Per quanto riguarda i vini di Mandrarossa ho stretto un contratto cosiddetto paritetico con la cooperativa Madonna del Piraino di Salaparuta che, entro dicembre, dovrebbe portarci a una fusione. Loro portano in dote 15mila quintali di uva, uve autoctone soprattutto ma anche vitigni internazionali. Soprattutto hanno altimetrie interessanti, anche sui 550/600 metri sul livello del mare. Questo significa poter puntare su vini che hanno più freschezza ed eleganza e quindi vendibili a prezzi più alti. Dal punto di vista commerciale – e qui parliamo di Settesoli - sto facendo diversi incontri con player internazionali per stringere partnership con chi il il mercato ce l'ha già. Non ha più senso spendere un mare di soldi in aree manager che non funzionano. Anche perché l'obiettivo è quello di fare 4/5 milioni di bottiglie in più.