
Trabia era un luogo pieno di mulini, aziende agricole, fabbriche di pasta secca, esportata nel bacino del Mediterraneo. Lo racconta Muhammad al-Idrisi nel Libro di Ruggero. Trabia è una località a un passo da Palermo e il libro in realtà si intitola Libro di piacevoli viaggi in terre lontane. Siamo nel XII secolo. Avete letto bene: fabbriche di pasta nel XII secolo. Questo vuol forse dire che la pasta è nel nostro Dna? Al contrario. Lo spiega bene il solito Massimo Montanari, nel gustoso libricino intitolato Il mito delle origini, breve storia degli spaghetti al pomodoro, con cui dimostra come le origini non siano semplicemente un luogo, un momento o un seme, ma una concomitanza di cause e condizioni. In Sicilia ci sono cultura greca e romana, influenze arabe, comunità ebraiche, mondo islamico oltre ovviamente ai requisiti climatici e geografici più favorevoli e a modelli sociali e alimentari adatti. Un melting pot che dovrebbe dare un taglio netto a qualsiasi campanilismo, che invece incombe come un’ombra quando si parla di pasta. La storia passa per una concomitanza di condizioni spesso imprevedibili per cui la tria, come a un certo punto è stata chiamata la pasta secca (il termine spaghetti, con le varianti -ini e -oni, si accredita solo a metà dell’Ottocento), ha smesso di essere un ingrediente come tanti per diventare una categoria alimentare, determinata da un nome collettivo, superando infine la diffidenza riservata ai cibi conservati, cibi poveri e per poveri. Questo spiega l’assenza da alcuni ricettari di corte.
Un po’ come accade oggi nei ristoranti di alta cucina, dove domina la scena la pasta fresca da plasmare a piacimento del cuoco, che può dare sfoggio di estro e abilità (certe volte anche dell’ego) nel modellare pietanze a partire dall’ingrediente principale. Non è l’unica ragione: la pasta secca che richiede un quarto d’ora di cottura o più, mal si inserisce in catene di montaggio di alta precisione e ritmo incalzante come sono certe cucine, soprattutto dove i menu degustazione impongono tempi serrati. Ci sono i bollitori (maneggiare pentoloni di acqua bollente durante il servizio è sconsigliabile), ma vuoi mettere con una pasta fresca che in un batter di ciglia è bella pronta? Senza contare, aggiunge Peppe Guida, tra i maggiori interpreti della pasta secca, che il rischio di errore è elevatissimo: «Deve essere croccante, al dente, ma non al chiodo, dura, e neanche spappolata. Se passa quella frazione di secondo è rovinata e il cliente deve aspettare altri 12-15 minuti. Con la pasta fresca è diverso: mantiene meglio la cottura e se sbagli in un paio di minuti puoi rifarla». Aggiunge poi: «La devi avere anche nel sangue: ci devi parlare. Se vuoi fare un piatto memorabile non basta la tecnica, ci deve stare anche il cuore. Poi con anni di mestiere non hai neanche bisogno di assaggiarla, la vedi dalla mantecatura, la consistenza, la lucentezza». Visto così viene quasi da domandarsi chi glielo fa fare a complicarsi la vita, soprattutto con la pasta lunga, che aggiunge difficoltà su difficoltà. Pensiamo agli spaghettoni di Benedetto Cavalieri con la caratteristica forma ad archetto: 52 centimetri piegati in due.
Spaghettone al pomodoro di Solaika Marrocco
Lo abbiamo chiesto a chi li usa, come Solaika Marrokko, una delle giovani migliori chef italiane. Sin dall’inizio da Primo, a Lecce, ha scelto gli spaghettoni, «un po’ perché era il tipo di spaghetto adatto per il piatto un po’ per portare avanti i produttori del territorio». Le difficoltà nella gestione? «C’è, ma basta sapersi organizzare» replica decisa. Lei li prepara con datterino giallo, origano, peperoncino caramellato – variante del più classico dei piatti italiani, gli spaghetti con pomodoro e basilico. Cambia il tipo di pomodoro, cambia l’erba aromatica, lavora un po’ il peperoncino, ma il senso alla fine è quello. «E nato come una sfida: tutti conoscono la pasta al pomodoro, ci sono tanti paragoni», spiega. Così la scommessa di farne uno nuovo, diverso ma non troppo.
E dire che è un matrimonio recente quello tra pasta e pomodoro. Più indietro nel tempo la pasta secca era in bianco e il formaggio ne era sposo prediletto secondo i canoni della medicina galenica che voleva abbinare all’umido (della pasta) il secco (del formaggio); il gusto ne guadagnava, e così si è andati avanti per un bel pezzo. Però a un certo punto i maccheroni si sono tinti di rosso, non subito perché c’è voluto un po’ per familiarizzare con il pomodoro: nei primi tempi lo si assimilava all melanzane, mele insane, e come queste suscitava sospetto, era una bizzarria, un ornamento. Poi è diventato d’uso comune, quando una salsa spagnola è entrata negli usi comuni. È il XVII secolo e all’epoca le salse andavano per la maggiore per aggiungere sapore e colore ai piatti. A fine ‘600, Antonio Latini, nello Scalco alla moderna, lo consiglia per carni bollite, circa un secolo dopo, a Napoli, incontra gli spaghetti, in versione nature, in conserva o con il ragù. Secondo i casi, le occasioni e le possibilità, ma intanto l’accoppiamento è fatto e più passa il tempo più si consolida. Inizialmente non è un piatto del popolino quanto quello del ceto medio. Ma è pur sempre una pietanza accessibile.
Foto di Filippo Nigro
La Scienza in cucina e l’arte di mangiar bene fa da cassa di risonanza in tutta la Penisola. Cambiano gli aromi, cambiano i grassi (burro, strutto, sugna, lardo; l’olio di oliva è sarebbe arrivato dopo); cambiano anche le proporzioni con il cacio a rifinire la salsa di pomodoro e non il contrario, ma il dado è tratto. Nella seconda metà del Novecento pasta pomodoro olio formaggio sono ormai strettamente legati e insieme a loro anche cipolla o aglio. O magari tutti e due come suggerisce Artusi che dà anche conto del basilico, oggi imprescindibile da ogni piatto di spaghetti al pomodoro che si rispetti (con la funzione patriottica di unire i colori della nostra bandiera a complemento del gusto). E forse è questo che ne ha consolidato un mito che più falso non si può, di piatto originario della nostra cultura e delle nostre radici.
Spaghetto Don Alfonso
Gli spaghetti al pomodoro sono identitari. Tanto che non è difficile trovarli in quelle insegne, e sono tante, che tengono alto il nome della cucina italiana all’estero. Pensiamo alla famiglia Iaccarino, che dal Portogallo alla Cina, dal Missouri alla Nuova Zelanda mette la sua firma così, con Spaghetto Don Alfonso che altro non è che una pasta al pomodoro. Semplicissima eppure rivoluzionaria proprio per la forza dirompente di una cucina d’autore mediterranea, essenziale, casalinga, quasi banale emersa nella ristorazione d’alta fascia in tempi non sospetti. Niente effetti speciali, solo una grandissima materia prima, figlia de Le Peracciole, l’azienda agricola di famiglia che prima di molti altri gli Iaccarino hanno messo a servizio del ristorante. Gli chef di origine campana conoscono il valore di quel piatto così semplice, e non a caso anche Gennaro Esposito l’ha voluto portare a Milano, al Caruso Nuovo, il bistrot del Grand Hotel et de Milan, mentre è un classico degli hotel Bulgari di tutto il mondo dove c’è Il Ristorante di Niko Romito a tenere alta la bandiera della cucina italiana classica (ma moderna).
E in effetti la pasta al pomodoro rientra ormai nei classici piatti da hotel, definizione che non rende merito al valore di questo piatto, sempre che non si chiami in causa Fulvio Pierangelini che l’ha fortemente voluta anche nei cinque stelle lusso del gruppo Rocco Forte, non prima di averla introdotta con tutti gli onori (allo stesso prezzo della pasta con l’aragosta) una ventina d’anni fa nel suo ristorante di San Vincenzo. Provocazione, allora, anticipazione, con il senno di poi. Quando s’è capito che non è tanto o soltanto la materia prima nobile a giustificare quel prezzo di un piatto, ma la ricerca, il valore del prodotto quale esso sia, il pensiero del cuoco. L’intenzione – in un certo senso – la stessa che rende opere d’arte i ready made, e che oggi riflette sulla pasta come ingrediente e non più come portata. All’estero ne fanno un vanto: quella assaggiata da Antonio Mermolia da Fiola, a Washington DC (tra i migliori ristoranti italiani all’estero), era un capolavoro, come lo era anche – seppur diversa per stile – quella di Daniele Sperindio a Singapore (miglior ristorante italiano al mondo nella Top Italian Restaurant del 2023), per non parlare di Peppe Guida, che dall’Antica Osteria Nonna Rosa a Vico Equense approda anche a New York attraverso i Pasta Bar di Di Martino con la sua Devozione.
La Devozione di Peppe Guida. Foto: Vannucchi
La chiama così, per evidenziare l’importanza dello spaghetto dal pomodoro: «Per noi campani essere devoti a qualcosa è radicato nella nostra storia. Siamo devoti a San Gennaro, a Maradona per questo dare a un piatto un nome così è tanta roba». La ricetta è sempre la stessa: «Quando quando butto gli spaghetti accendo il pomodoro senza condimento, dopo 4/5 minuti scolo la pasta e la metto nel pomodoro per altri 3 minuti per finire la cottura, così rilascia il suo amido, non troppo, non mi piace la pasta risottata, limosa. Il segreto – continua – è cuocere quanto meno possibile la salsa per avere lo stesso gusto, dolcezza, profumo e colore di quando è stata fatta». A fuoco spento aggiunge un generoso giro d’olio e una foglia di basilico: filologico.
serena_serrani2011
In Italia c’è chi invece si è divertito a giocare a nascondino come Niko Romito che ne ha fatta una versione in bianco, con acqua di pomodoro, ormai quasi 15 anni fao Mauro Uliassi che nella pasta e pomodoro alla Hilde (un taglio corto, però, la calamarata di Massi) ricostruisce il profumo dei raspi delle piante di pomodoro, mettendo in infusione nel burro delle foglie di fico giovanissime (nel menu Lab 2021).
I più, però, si divertono a creare il proprio blend di pomodori, alla stregua dei migliori pizzaioli con la farina: anni fa Nino Di Costanzo dava prova di equilibrismo facendo la salsa con 5 diversi tipi (ramati, datterini, pachino, del piennolo, San Marzano) per comporre la sua miscela perfetta; un po’ come fanno i Cerea che per i loro famosi Paccheri alla Vittorio uniscono San Marzano, datterini di Pachino e cuore di bue per creare il giusto equilibrio fra acidità e dolcezza in una salsa setosissima, passata al chinoise, aggiungendo il tocco magico: la mantecatura al tavolo. Sarà anche per questo che hanno scelto un formato che riduce i rischi di schizzi di sugo? Chissà, comunque per mettere a riparo gli ospiti c’è un adeguato bavaglino di stoffa, ad aumentare l’effetto wow. Oggi si trovano in mezzo mondo, in tutti gli indirizzi di casa Cerea: da Brusaporto a St. Moritz, da Shanghai a Saigon. La ricetta ha mezzo secolo di vita e non smette di mietere cuori.
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