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La minestra delle staffette partigiane: cosa cucinavano le donne della Resistenza

Tra diari, testimonianze e piatti poveri, il libro Partigiani a tavola. Storie di cibo resistente e ricette di libertà racconta come la cucina sia diventata un luogo politico, uno spazio di solidarietà e sopravvivenza

  • 25 Aprile, 2025

Durante la Seconda guerra mondiale, la mancanza di cibo fu una delle esperienze più comuni e trasversali. Le restrizioni alimentari cominciarono ben prima dell’entrata in guerra: prima limitarono i giorni in cui si poteva servire carne nei ristoranti, poi arrivarono i tesseramenti, il razionamento dei beni di prima necessità e l’assenza quasi totale di prodotti come l’olio d’oliva, la farina bianca, il burro. Con l’occupazione tedesca, la situazione peggiorò ulteriormente: le razzie nei confronti delle famiglie contadine svuotavano stalle, dispense e orti, e ogni giorno diventava una corsa per mettere insieme un pasto.
In questo scenario, le donne ebbero un ruolo decisivo. A dispetto delle politiche fasciste che le avevano relegate per anni al focolare, considerate inadatte all’insegnamento, escluse dai concorsi pubblici e marginalizzate nella sfera lavorativa, furono proprio loro a garantire la sopravvivenza quotidiana delle famiglie e dei gruppi partigiani. Sapevano come far durare il pane, come riutilizzare le bucce, come dare sapore a ingredienti poverissimi. Ma soprattutto seppero trasformare l’organizzazione della cucina – e della distribuzione del cibo – in un’attività politica.

Il libro Partigiani a tavola di Elisabetta Salvini e Lorena Carrara racconta proprio questa dimensione materiale e quotidiana della Resistenza femminile. Attraverso le staffette ma anche attraverso le donne che improvvisavano zuppe nei casolari,  che nascondevano stampa clandestina nei cartocci del mercato, le madri che protestavano per il pane, le ragazze che imparavano a cucinare con quello che c’era. Una resistenza che non sempre impugnava il fucile, ma che ogni giorno compiva gesti decisivi.

Partigiani a Tavola. Storie di cibo resistente e ricette di libertà

Staffette: «gentili, dolci e un poco spaventate»

Nel libro si legge che una staffetta «doveva dunque essere insignificante, apparire ingenua e tonta per poter passare senza destare sospetti. Doveva essere coraggiosa e ardita, ma “apparire femminilmente modesta”, ossia «mostrarsi sempre gentile, dolce e un poco spaventata». E doveva ingegnarsi: «per le rivoltelle, il mio espediente preferito era d’immergerle in un pacchetto di burro. Se avessero controllato, avrebbero scoperto che il peso specifico del burro era accresciuto». Luciana Chiari, entrata in una formazione delle SAP a Parma, racconta: «Il nostro gruppo era composto da una decina di compagni che operavano clandestinamente soprattutto con atti di sabotaggio e diffusione di manifesti […]. Per la prima volta sentivo di aver compiuto una scelta importante, di appartenere a un movimento con una propria linea strategica, per liberare il Paese dal nazifascismo».

«Il sogno svanisce. L’uggia allo stomaco rimane»

La fame non è retorica. È realtà quotidiana. Nel diario di Bruna Talluri si legge: «Cena di guerra. Ti siedi a tavola (argomento volgare che dimostra ancora una volta come lo spirito non basta per vivere) e sogni ad occhi aperti con lo stomaco che gorgoglia una sfilata di pani appena tolti dal forno con un contorno altrettanto profumato di salamini e di bistecche, di polli ben crogiolati allo spiedo e di patatine croccanti… il sogno svanisce. L’uggia allo stomaco rimane. Togli una briciola alla tua razione di pane, frenando il desiderio di mangiartela tutta in un solo boccone. Questo è il primo atto. Il primo gesto istintivo. Poi arriva pomposamente in tavola la focaccia di foglie di cavolo e la fame, quella vera, fa sembrare eccellente un piatto che, in una situazione normale, avresti gentilmente rifiutato.» Con l’entrata in guerra, la carne sparisce dai mercati tre giorni a settimana. Il pane viene razionato. L’olio d’oliva è un ricordo, sostituito da quello di noci o nocciole. La torta Lorena, annotata in un diario dell’epoca, è fatta con farina di polenta: “Ingozza un po’, ma se avete fame e tredici anni, la troverete squisita”; le castagne che sembrano diventare l’unico pasto possibile per un partigiano: castagne secche, bollite, farina di castagne, castagnaccio e addirittura brodo di castagne per scaldarsi.

Le cuciniere della Resistenza

“Pettinengo, San Francesco, settembre 1944. Partigiani del distaccamento Andrea Taverna. Foto: www.www.storia900bivc.it”Passi di: “Partigiani a tavola (Elisabetta Salvini, Lorena Carrara) (Z-Library)”. Apple Books.

“Pettinengo, San Francesco, settembre 1944. Partigiani del distaccamento Andrea Taverna. Foto: www.www.storia900bivc.it”

La cucina, durante la guerra, non era solo il luogo dove si preparava da mangiare. Era anche il luogo dove si prendevano decisioni, si costruivano alleanze, si garantiva la sopravvivenza. Le donne che cucinavano per i partigiani non erano semplicemente massaie adattate alle circostanze. Come sottolineano Salvini e Carrara, erano capaci di far fronte alla scarsità con ingegno e precisione, utilizzando ogni risorsa disponibile: l’acqua di canale filtrata con la schiumarola, le farine tenute sollevate da terra per salvarle dai parassiti, salami e salsicce allineati come una piccola dispensa d’emergenza.
Ma non era solo questione di tecnica. Era una forma di giustizia. Significava anche creare uno spazio protetto, di cura e di umanità, dentro la brutalità della guerra. Un gesto apparentemente semplice, come servire un pasto caldo, diventava un modo per affermare che una comunità – per quanto precaria – esisteva ancora. La figura dell’Agnese, nel romanzo L’Agnese va a morire, incarna proprio questo. In disparte cucina, rassetta la tavola, raccoglie le stoviglie. Ma nel gesto di distribuire il cibo “in modo equo e giudizioso”, c’è una forma di comando silenzioso, un’etica concreta che struttura la vita collettiva. Intorno a quel gesto si definisce chi siamo, cosa condividiamo, come resistiamo.

La minestra

Ed è proprio in questo intreccio tra necessità e cura, tra scarsità e gesto politico, che si colloca uno dei piatti simbolo della Resistenza: la minestra della staffetta. Doveva nutrire chi partiva all’alba in bicicletta, chi rientrava dai boschi con le scarpe infangate, chi aveva appena finito di cucire un messaggio nella fodera di una giacca.

Lidia Menapace, partigiana e staffetta, racconta: «A malapena avanzai un po’ di tempo per mangiare una scodella di minestra nella canonica di don Giuseppe a Castellanza, una fitta minestra di riso, patate e rape, con poco sale e niente condimento, però calda e offerta con rustica cordialità dalla perpetua, un viso di legno». Nel libro questa zuppa semplice e sostanziosa viene codificata come minestra della staffetta.

3 rape medie
4 patate medie
200 g di riso
1 cipolla
olio, sale e acqua q.b.
Le verdure si tagliano a tocchetti, si coprono d’acqua in una pentola capiente e si lasciano sobbollire. A metà cottura si aggiunge il riso.

«Con il cestino per la spesa sul manubrio della fida bicicletta, il messalino dentro e un plico di “Il Ribelle” involtato casualmente, esco che è ancora notte, e non c’è ovviamente illuminazione per le strade; depongo una copia del giornale a certi portoni o cancelli che so, poi corro a mettermi in fila al negozio ancora chiuso e infine con il cartoccio della carne in più e il pacco dei giornali in meno vado in chiesa […]. Quando torno mi pare di aver già vissuto abbastanza». Il racconto della partigiana Lidia Menapace restituisce lo straordinario “amalgama naturale e quasi scontato” tra azioni di Resistenza e incombenze quotidiane: uscire da sole prima dell’alba, camuffare un giornale clandestino come pacco alimentare, garantirsi un pezzo di carne in macelleria, fare la fila, pregare. Le parole clandestine si mescolano a quelle della liturgia.
È anche per questo che molte donne della Resistenza non si definirono mai eroine. Non si pensavano tali. Erano madri, figlie, sorelle che facevano il loro dovere. Anche con una scodella di minestra.

I passi citati e le immagini sono tratti dal libro Partigiani a tavola, Elisabetta Salvini e Lorena Carrara

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