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Ristoranti italiani nel mondo

"Nei grandi ristoranti c'è improvvisazione e omologazione, siamo tornati indietro di 20 anni". Parla un talentuoso chef italiano a Washington

A poca distanza dalla casa Bianca, Antonio Mermolia è lo chef di Fiola, tra i ristoranti più amati dai grandi nomi della politica a stelle e strisce

  • 25 Aprile, 2025

Chef dell’Anno nella guida Top Italian Restaurant 2023, Antonio Mermolia è un volto noto per gli appassionati di cucina italiana negli Stati Uniti. Oggi è a Washington da Fiola, il ristorante di punta di Fabio Trabocchi, ma lo avevamo già notato ai tempi de Le Sirenuse al Four Seasons Hotel at The Surf Club di Miami, e prima ancora, quando fece faville al Punto di New York. Figlio d’arte, è arrivato in cucina tardi. Prima c’è stato il basket a occupare le sue giornate e solo dopo i 20 anni si è avvicinato al mondo dell’ospitalità, nell’hotel dei genitori, mentre i nonni – da entrambi i lati della famiglia – avevano a che fare con il buon mangiare e il buon bere, con con una piccola salumeria e vineria, mentre i bisnonni producevano liquori e avevano una bottega. I primi passi li ha mossi in sala, e solo successivamente ha preso in mano pentole e coltelli, forte di studi e letture costanti. A 27 anni è alla Capinera di Pietro D’Agostino a Taormina per uno stage, dopo poco arriva l’occasione di volare nella Grande Mela, e da lì le cose prendono il loro corso: passa al Mulino a Vino di Davide Scabin e poi da Thomas Keller. È a Miami per 6 anni, poi arriva nella capitale degli Stati Uniti, nel 2021. Lo incontriamo proprio qui, a un passo dai centri del potere nei giorni in cui Donald Trump scuote il mondo con l’annuncio dei dazi.

Fiola è vicino alla Casa Bianca. È mai venuto Trump?

No, lui no. È venuto il team di Musk prima delle elezioni, era un tavolo da 15, lui è arrivato dopo. Nancy Pelosi viene spesso, anche con l’ambasciatrice italiana. Qui non è difficile incontrare un personaggi della politica a tavola. Cercano qualcosa di autentico quando ci scelgono, cercano il gusto italiano.

E come è quando arrivano?

Un nightmare. Se sono seduti in quattro, ci sono 15 persone della security in giro, passano in cucina, controllano le uscite di emergenza.

Per la cucina invece? Sono difficili?

In genere fanno cene con menu ad hoc. Sono molto aperti, è difficile che ci siano problemi per il cibo anche perché qui c’è un menu molto semplice, anche nella descrizione è molto chiaro, la gente non si spaventa anche se nella preparazione magari è più audace. Ma uno spaghetto al pomodoro anche se non è in carta lo faccio….è una delle cose che amo di più.

Quale è l’atmosfera in questo momento a Washington?

Ci sono state un po’ di tensioni, soprattutto per la questione discorso dell’emigrazione, ma al di là di questo in realtà non cambia nulla.

Non c’è preoccupazione per i dazi?

La notizia dei dazi ci ha spaventato ma sapevamo che non era sicura. Volevamo aspettare una conferma che poi alla fine, con le sospensioni e tutto il resto, non è arrivata. E non credo che i dazi siano fattibili, come li ha annunciati Trump.

Fiola è un ristorante italiano, come per altri suoi colleghi, i dazi vi riguarderebbero?

Parecchio. Usiamo carni, pesce e verdure locali, ma a parte il fresco tutto il resto lo facciamo arrivare dall’Italia: farine, paste, sale, oli e così via.

Nel caso andasse avanti cosa farete?

Eh, sarà interessante. Rinunciare a certi prodotti è impossibile: chi lo fa il riso che serve a noi? Credo che dovremo ritoccare i prezzi.

La prospettiva vi allarma?

Siamo già il più costoso o il secondo più costoso della città, comunque siamo un ristorante fine dining che non è un locale da tutti i giorni. L’alta ristorazione subisce meno gli aumenti. Il problema è soprattutto per chi ha uno scontrino medio più basso: non può fare un ricarico al 300% e fare un piatto da 120 dollari solo per pagare i dazi. Poi trattorie o pizzerie non possono prendere meno prodotti. Faccio un esempio: il parmigiano non lo fai pagare, lo grattugi sulla pasta come condimento, sarebbe difficile anche da quantificare. Pensa alle farine per le pizzerie;  secondo me il problema sarà anche per le acque italiane, non le troverai più sulle tavole. Noi, per il tipo di ristorazione che facciamo, possiamo dire che siamo meno in difficoltà di altri.

Chi sono i clienti?

Oggi la nostra è una clientela mista: politici, coppie per cene romantiche, persone che festeggiano anniversari o compleanni, gente che viaggia per mangiare da noi, tanti giovani, gourmet ma anche habitué che vengono spesso. Un ristorante italiano attrae un po’ tutti.

Come se lo spiega?

Il fascino italiano c’è sempre, è sempre confort anche in un posto upscale come il nostro.

Come si rapporta con la cucina italiana?

I piatti vengono sempre dalla tradizione. Una convinzione che ho abbracciato quando ho lasciato l’Italia e in cui credo tantissimo è che un ristorante italiano all’estero ha l’obbligo di essere più italiano che in Italia, e forse è stata la mia chiave di svolta più importante. Noi abbiamo l’obbligo di fare tradizione e questo mi ha dato una grande ispirazione.

Perché l’obbligo?

Perché se vai in un ristorante giapponese in Italia stai già provando qualcosa che esula dalle consuetudini e dalla cucina locale; così per un ristorante italiano negli Usa. Chi ci va vuole immergersi per una volta nei sapori italiani, e io ho la responsabilità di parlare di sapori riconducibili alla tradizione, che ricordano al cliente l’Italia. Non posso fare gli spaghetti alle fragole.

E in questo che ruolo ha la tradizione?

Non bisogna essere nostalgici, tecnicamente si può evolvere per valorizzare il nostro patrimonio culturale. Uso tantissime cose italiane, cerco il gusto italiano e lo filtro in base all’esperienza e in base alla creatività, se ce l’ho. Cerco di renderle contemporanee, ma sempre riconducibili alla tradizione e all’identità. Dobbiamo rendere partecipi le persone della nostra gastronomia che è un patrimonio incredibile.

Ormai sarà riconosciuto anche negli Usa, o no?

In realtà oggi vedo molta improvvisazione e molto omologazione nell’alta ristorazione, sembra di essere tornati indietro di 20 anni. Nei fine dining trovi dappertutto caviale, tartufo, foie gras, black code e ricci di mare. E invece dobbiamo tornare a fare spaghetti al pomodoro o alle vongole o genovese. Ovviamente parlo per me non per tutti, non ho la presunzione di creare un nuovo stile di cucina… Chi ha creato spaghetto al pomodoro è stato un grande creatore.

Non è una cosa così consueta in fondo.

Non so, ma se faccio qualcosa deve avere qualcosa di autentico legato alla mia trazione, ho la responsabilità di portare avanti il sapore italiano. Siamo custodi di quel che è stato fatto in passato, la cucina contemporanea deve centrare la tradizione, il gusto italiano. Dobbiamo fare come fanno i francesi.

Come la mettiamo con la cucina italo americana?

Quando sono arrivato ho avuto uno choc incredibile, credo come ogni italiano che arriva negli Usa. Ma dopo 15 anni anche se non è parte della mia cultura e non lo sarà mai la rispetto. L’immigrato degli anni ’40 ha portato quel che conosceva, veniva da un’Italia povera e non aveva la possibilità di tornare ogni anno in Italia né esistevano i social che ci sono oggi. Ha tenuto con sé i ricordi della sua Italia, che poi sono diventati la sua tradizione. Che ha un valore legato alla sua famiglia, alle sofferenze che si è lasciati alle spalle, a quelle radici e ai ricordi. Queste tradizioni sono poi state portate avanti dai nipoti, che non sono più italiane, ma italo americane.

Nessuna tentazione di cedere a qualche compromesso, magari sulla cottura della pasta?

No, sono sempre stato un radicale, e poi non so cucinare in altra maniera rispetto a come cucino.

Le persone hanno faticato a capirlo?

È stato un percorso lungo, ho scelto la strada meno battuta e più ardua. Il problema a Washington non l’ho trovato. Uso prodotti semplici: lenticchie, patate. La gente è affascinata da questo modo di cucinare, con ingredienti umili esaltati nella loro dignità, mentre spesso qui si tende al francese, si usano salse. Io cerco di essere molto italiano soprattutto nei secondi, anche perché è facile esserlo sulle paste.

Può farci qualche esempio?

Nei secondi cerco ricette tradizionali e cerco di riadattarle, come nel caso della pezzogna aglio olio e peperoncino. Oppure il brasato alla genovese di cipolle. Sono sapori tipici italiani. Cerco di aggiornarmi, essere creativo, mantenendo l’anima del sud Italia aggiornata nelle tecniche. Credo che ancora oggi la grande cucina italiana sia nelle case, purtroppo e per fortuna.

Eppure lei ha avuto esperienze im ristoranti molto importanti…

Ho lavorato con Scabin, Keller, Pietro D’Agostino ma ancora oggi credo che mia madre sia la cuoca più brava che ho conosciuto perché mi ha introdotto ai sapori della cucina di casa. Le grande creazioni della cucina italiana sono stata fatta dalle donne e in casa. Sembrerò blasfemo, ma credo che la mamma sia la cuoca perfetta. Perché ha il nutrimento nel Dna, e cucina con l’istinto di nutrire, sceglie i migliori ingredienti, cucina con il cuore. Queste cose sono la chiave di un grande chef: scegliere migliori ingredienti, cucinare con la spinta del nutrire, e farlo con il cuore. In alcuni ristoranti si cucina sotto l’influenza di quel che il mercato vuole.

Quindi si fa tanto ma poi si torna sempre alla cucina della mamma?

Quando ho paura di perdermi penso alla cucina materna, per me quella è la direzione, continuando a crescere.

Non sarà solo quello però…

Il futuro dell’alta cucina deve intrecciare la salute e l’ambiente. La grande cucina deve usare ingredienti stagionali e sostenibili, ma deve incrociare anche quel che fa bene, il futuro è anche quello: ricordarsi delle tradizioni, migliorarle anche dal punto di vista nutritivo, seguire la stagionalità senza dimenticare il gusto italiano, la nostra storia, chi siamo e quel che facciamo. Non possiamo avere la presunzione di creare qualcosa di completamente nuovo, abbiamo alle spalle migliaia di anni.

Si può fare anche a Washington?

Qui abbiamo le 4 stagioni. In inverno ci sono delle difficoltà, ma di solito è un periodo in cui uso poco vegetale, qualche radice, patate; mi adatto alla stagione. Se devo usare un pomodoro, uso un pomodoro italiano. In primavera ed estate qui c’è di tutto, patate piselli cettrioli, piselli, anche le uova sono della stessa azienda agricola. Stiamo piantando dei pomodori del piennolo per vedere se riusciamo a farli.

Ci dica un piatto a cui è molto legato.

Direi il cubetto ripieno di genovese di anatra, anche se non c’è un solo piatto: vendiamo moli degustazione qui. Legato a quando ho lavorato alle Sirenuse, dove facevamo il raviolo di genovese, di cui il cubetto è l’evoluzione. Un piatto legato anche all’evoluzione campana: la genovese la mangiavamo ogni domenica a casa.

Oggi è a Washington, ma prima è stato a Miami e prima ancora a New York. Quali sono le differenze tra queste città?

Culinariamente Washington ha qualcosa di più europeo, le persone sono più rispettose, sono attente e quando vengono hanno voglia di scoprire quel che fai. È una città molto interessante da questo punto di vista. Miami è una città nuova, quando l’ho vissuta io non era quella di oggi, non era ancora esplosa. Dopo la pandemia c’è stato un boom:c’è molta richiesta, i locali fanno anche 300 coperti a sera e così è difficile ma lì è più difficile fare fine dining, fare cose più complicate anche se ci sono grandi realtà. Sono molti posti più semplici anche se molto buoni, pochi i posti in cui si punta sull’esperienza. A New York sono stato dal 2011 al 2016, al tempo la cucina italiana non aveva altissimi livelli, anche oggi è un po’ così: è buon livello ma non altissimo. Difficile fare cucina autentica italiana, mentre la pizza è migliorata tantissimo, mangi grandi pizze napoletane e romane.

Tirando le somme?

In generale negli Usa negli ultimi 15 anni la cucina è cresciuta tantissimo e non solo quella italiana. Oggi i locali internazionali competono con i grandi ristoranti del mondo, 15 anni fa trovavo solo francesi. I posti italiani però soffrono un po’, c’era Del Posto, che non c’è più. Trovi più che altro trattorie, perché a livello logistico per fare fine dining italiano a New York ci sarebbero costi altissimi; quindi trovi posto mascherati da ristoranti più casual anche se fanno fine dining nel piatto. Come Redzora, che fa un buonissimo lavoro, ma un’Osteria Francescana sarebbe difficile.

Quanto conta per voi il vino?

Molto. Siamo anche stati premiati per la cantina da Wine Spectator. La nostra clientela ama bere vini importanti, e soprattutto vini italiani. Abbiamo un range di tutto, ci tengo tanto ad avere vini del sud che amo, per esempio Arianna Occhipinti (resasi protagonista di una polemica nelle settimane scorse), e cerchiamo di darli al bicchiere o nel pairing.

Le persone begli Usa li conoscono?

Sì, anche le cantine più piccole, anche se i vini poco costosi ma di grandi qualità non sono così popolari.

Che intende?

In italia si beve benissimo anche con un budget basso. Qui è ancora un po’ difficile: negli Usa quando uno vuole spendere dei soldi in un ristorante importante, apre qualcosa che conosce. Per avere importanza un vino deve avere un certo costo.

Ci suggerisca qualche ristorante italiano vicino a lei…

A Washington mi piace tantissimo la pinsa romana di Via Roma. Oppure Tosca, un altro ristorante in cui si mangia italiano. Poi Fiola Mare, che è dello stesso nostro gruppo. C’è anche una pizzeria alla pala che si chiama Straccim, in Virginia, non è di italiani, ma è molto buona.

Fiola – Usa – Washington – https://www.fioladc.com/

 

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