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L'intervista

Giancarlo Perbellini: "Il futuro? Ristoranti meno oppressivi. Se non facciamo innamorare i giovani, possiamo chiudere"

Nove insegne di cui sei a Verona: lo chef di Casa Perbellini racconta il fine dining del futuro

  • 14 Aprile, 2025

Alla seconda domanda e dopo pochi minuti d’incontro, Giancarlo Perbellini dimostra una capacità abbastanza rara di pensare la professione. Come chef, come imprenditore, come persona che ha vissuto tante vite e ci ha ragionato sopra, dalle aperture all’estero a quelle in Italia. Passando anche per la tv del Gambero Rosso. E l’ha fatto mettendosi in discussione, cercando di trovare un senso anche in ciò che non è andato.

Il wafer al sesamo, piatto preferito di Giancarlo Perbellini (in apertura lo chef mentre lo prepara). Le foto sono di Marco Di Donato

Intervista a Giancarlo Perbellini

Dichiara di non riconoscersi minimamente nelle sue ricette di diversi anni fa, lo intercettiamo mentre puntella il format della Locanda, tra nuove cucine e laboratori di formazione. Nel complesso Perbellini segue ben nove indirizzi, sei a Verona (tra cui Casa Perbellini – 12 Apostoli: Tre Forchette e Tre Stelle), una a Milano, una sul Lago di Garda, e infine in Sicilia (sulla spiaggia di Bovo Marina).

Come sarà il ristorante del futuro?

Penso a Casa Perbellini. Credo sia la leggerezza la parte essenziale del futuro, il cliente deve assaporare i pregi di questo luogo storico ma in maniera leggera, non oppressiva, non come le etichette dei ristoranti di una volta. Non dobbiamo ripetere quell’errore. Il futuro, poi, è legato ai giovani, penso alla mia brigata di sala e di cucina. Se non riusciamo a farli innamorare di questo meraviglioso lavoro possiamo anche chiudere.

E come si fa? In molti si stanno allontanando: non ci sono prospettive di crescita. Come li incentiva?

Quasi tutti i ragazzi che abbiamo si sono formati in posti nostri e in molti sono poi diventati imprenditori. Se uno merita, lo coinvolgiamo e lo facciamo crescere. E questo non da oggi, ma da 20 anni. E abbiamo la settimana corta, due giorni di chiusura, un traguardo perché ce lo possiamo permettere. E fa star meglio chi lavora con noi.

Insalata, acqua di piselli, menta

Menu del futuro. Immaginiamolo tra 20 anni: più vegetale e…?

Beh, il vegetale sarà preponderante, vedo anche più carboidrati e meno carni e pesci. Il menu andrà nella direzione di una cucina della semplicità, che può essere bellissima. È molto più difficile dare emozioni rimanendo semplici.

Il modello del ristorante è in discussione. Nel futuro ci saranno più aperture in catene, diversificazioni, l’entrata di fondi internazionali come in altri settori?

La diversificazione paga sempre, ma una diversificazione a tema. Il successo è legato a un contenuto a un tema, guai a banalizzare la diversificazione con mille proposte. Le catene in Italia? Non cresceranno tanto, perché la cucina nostrana è molto difficile da incanalare in un format. C’è troppa differenza di prodotti straordinari che sono reperibili in alcune zone e altre meno. Non possiamo cucinare in Sicilia quello che facciamo a Milano. Ribadisco, il tema è fondamentale.

E all’estero? Ricordiamo di una sua apertura e chiusura a Hong Kong?

Sì, diversi anni fa. Per il momento firmiamo giusto due piatti di pasta da Harrods a Londra. Ci stiamo riflettendo, vogliamo esaltare e andare oltre il concetto della Locanda che si evolverà in un luogo polifunzionale: scuola di cucina, di sala, laboratori per la banchettistica, cene fuori casa. Stiamo pensando a una nuova via.

Nel futuro quale sarà la parte dell’ospitalità, del calore e dell’empatia?

Sono i servizi che puoi dare al cliente a fare la differenza: la cura, l’attenzione, i plus che non si aspettano. Dal servizio per non rischiare la patente ad altri format con i produttori di vino. Qui, intorno al mio ristorante, ci sono 3-4 aziende che producono caviale: si è creata un’industria del turismo, l’attrazione di un polo.

A proposito di vino, i consumi sono in calo anche da voi?

A Casa Perbellini no. Ma siamo in pieno centro storico e la maggior parte dei clienti si fermano a dormire nei paraggi. Abbiamo avuto cali nel ristorante sul Lago di Garda perché lo devi raggiungere in auto. Meno bottiglie e più vendite al bicchiere.

Lo staff di sala di Locanda ai 12 Apostoli con chef Perbellini

E avete cambiato approccio?

La filosofia è sempre quella di un pairing sartoriale costruito sul cliente e sul menu. Da pochi giorni abbiamo una lista ampia di grandi vini che serviamo anche al bicchiere grazie alle nuove tecnologie.

Cosa sarà centrale nell’ingrediente del futuro?

Soprattutto la questione del racconto, la sua divulgazione. Penso al broccolo fiolaro che oggi in Nord Italia trovi ovunque grazie a Carlo Cracco che è originario di Creazzo e l’ha fatto conoscere. Sta a noi ristoratori creare aspettative e valorizzare il prodotto.

Per cosa va matto?

Impazzisco per il luppolo selvatico, i bruscandoli. Ci sono nato con quel sapore, nelle uova strapazzate, nel risotto, qui nella Bassa Veronese lo fanno in mille modi. Mi riporta davvero allo spirito della campagna, del contadino, lo raccogli ancora lungo le strade: in primavera c’è sempre nel menu. Selvatico come il carletto vicentino che si raccogli a costo zero nei campi ed è entrato ormai nella cultura anche di Verona.

Cosa vuol dire cucina attuale? Seguire le stagioni?

Io cambio menu anche 5-6 volte l’anno, spesso facciamo due carte per stagione. Ci sono le primizie e poi l’evoluzione, parto magari con l’asparago verde e poi vado su quello bianco a fine aprile. Abbiamo bisogno d’interpretare l’ingrediente nella sua massima espressione e poi cambiare prodotto.

E classico contemporanea? È anche il titolo di un suo libro.

Nelle basi della cucina moderna c’è sempre un che del passato in una veste diversa. Abbiamo reinterpretato la cucina classica internazionale. Un esempio? La salsa bercy nel menu non la montiamo con il burro ma la emulsioniamo con l’olio di nocciola. La memoria del gusto ti riporta a quella di una volta, ma con un tocco contemporaneo.

Quanto è cambiata la sua cucina nel tempo? Errori imparati dal passato?

Ho analizzato questa cosa. Siamo diventati il contrario di quello che eravamo. Io ho cambiato tante strade. Non mi riconosco più nelle mie ricette di 30 anni fa. Ho avuto la fortuna di lavorare con ragazzi che mi hanno insegnato tanto e ho raccolto. Ero uno da almeno 4 ingredienti nel piatto, ora lavoro per metterne tre e per arrivare a due. E non è facile.

La delusione più grossa della sua carriera?

Il wine bar che ho aperto, l’enoteca Zero 7. Non sono mai riuscito a trasmettere quello che avrei voluto. Ci ho lavorato 4-5 anni, poi mi sono arreso. Se fai l’imprenditore, l’importante è sbagliare senza farsi troppo male.

Lo staff di cucina di Locanda ai 12 Apostoli con chef Perbellini

La più grande soddisfazione della sua carriera? Non saranno mica le Tre Stelle?

Beh, diciamo che ho fatto una fatica enorme ad arrivarci. Sì, il coronamento di una carriera.

Il piatto della memoria?

Nessun dubbio, lo faccio spesso anche al ristorante: pasta reale, uno gnocchetto che faceva mio nonno con uovo, burro e parmigiano, in brodo di cappone. E poi il tastasal, prodotto tipico della Bassa Veronese, rigorosamente la domenica con il risotto.

Una trattoria del cuore?

La conoscete bene al Gambero. È la Crepa di Isola Doverese. Quando voglio far capire qualcosa ai ragazzi li porto sempre lì.

Il Paese che l’ha più ispirata a livello professionale?

La Francia per formazione mi ha dato tanto, ma per sapori e sfumature dico Vietnam. Ho trovato una delicatezza incredibile, una cucina asiatica assolutamente non invasiva e molto elegante.

La persona che sul lavoro è stata un vero riferimento?

Una persona che mi ha segnato molto è Paolo Simioni, chef che mi ha fatto appassionare alla cucina classica perché veniva dai grandi alberghi svizzeri quando erano il non plus ultra. E poi Elia Rizzo del Desco: mi ha insegnato che cosa vuol dire essere un ristoratore e non un cuoco. Sono due cose ben diverse. Nei primi anni i conti li guardavo davvero poco.

Riprendiamo Ferran Adrià: “La ristorazione non ha visione economica”. Vero?

La moda ha generato meccanismi contorti perdendo di vista che la ristorazione è comunque un’attività imprenditoriale. È semplice: i ristoranti devono stare in piedi con le loro gambe.

In Italia stiamo esagerando con le fermentazioni?

Siamo fatti così, abbiamo sempre vissuto di mode. La moda del sifone e delle polverine, poi la stagione della rucola, quindi il tonno. Bisognerebbe guardarle piano piano per vedere se siano esperimenti fanno la differenza nel piatto o meno. Credo che la tendenza sia arrivata al culmine e scemerà.

Uno chef poco conosciuto che farà parlare di sé?

Michele Lazzarini di Contrada Bricconi.

Che è già abbastanza famoso tra gli addetti.

Beh, anche Caranchini di Materia ha una grande mano, ci sono appena stato e già ho voglia di tornarci. Mi ha colpito. E aggiungo un bravissimo ragazzo che è passato da me: Marco Stagi del ristorante Bolle a Bergamo.

Il consiglio a uno chef che approccia nel 2025?

Fai esperienza nei locali semplice, studia l’organizzazione e la gestione dei numeri importanti. La mia fortuna è stata lavorare in posti come il ristorante Marconi di Verona che nell’84 faceva oltre 200 coperti al giorno. E poi con i banchetti. Non solo per imparare la gestione dei grandi numeri, ma anche per comprendere la manualità del gesto. E sii curioso, quella dote la devi avere.

Un solo piatto, cosa ci prepara?

Il wafer. È un biscotto al sesamo, tartare di branzino, caprino ed erba cipollina, cucchiaio bagnato di sciroppo leggero di liquirizia. Sono cinque sapori che entrano ed escono, sono perfetti. Li senti tutti: bisogna ascoltare quello che si mangia. Di piatti così ne viene uno nella vita.

Un sogno non ancora realizzato?

Voglio prendere il brevetto di volo. Ho sempre sognato di fare il pilota.

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