Riguardo ai nuovi dazi imposti dal governo statunitense, abbiamo chiesto all’avvocato Sara Armella, con un lunghissimo curriculum in materia doganale*, di approfondire la situazione: i prodotti agroalimentari italiani più a rischio, gli sbocchi commerciali internazionali alternativi al mercato statunitense, gli errori, le opportunità, le sfide, i consigli a imprese e professionisti italiani del settore.
Quali sono i prodotti agroalimentari italiani più a rischio?
La nuova aliquota imposta dagli Usa sarà spalmata su tutti i prodotti a prescindere se di altissima gamma, che un pubblico altospendente può permettersi di acquistare a qualsiasi prezzo, oppure semplici e di uso quotidiano, consumati da giovani e persone con minori possibilità economiche. Una Ferrari, un vino pregiato come il Brunello di Montalcino o un salume esclusivo come il culatello di Zibello possono sopportare un prezzo elevato: ci sarà sempre qualcuno negli Stati Uniti disposto a comprarli.
Discorso diverso per i prodotti agroalimentari italiani basic ed economici, che potrebbero avere un equivalente altrove nel mondo ed essere sostituiti più facilmente. Sono loro maggiormente vulnerabili in questa circostanza e potrebbero essere importati da Paesi ai quali il governo Usa ha imposto dazi inferiori: per esempio, parlando di vini, da Cile, Argentina, Australia, Nuova Zelanda, Argentina, con tasse doganali del 10%.
Foto dal sito web ARcom Formazione
Quali Paesi potrebbero essere i nuovi mercati per il food & wine made in Italy?
Con Ice (agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane, n.d.r.) stiamo sviluppando questo aspetto. È essenziale che le piccole e medie imprese si guardino intorno seguendo alcune precise linee guida, a cominciare dalla cultura del Paese di destinazione. Come il Giappone, che ha un’alta conoscenza e considerazione del nostro agroalimentare ed è il terzo mercato di destinazione a livello mondiale. O come l’Arabia Saudita, verso la quale l’export è aumentato a doppia cifra: tranne per vini e salumi, potrebbe essere un interessante sbocco commerciale per le imprese italiane specializzate in altri generi alimentari, come formaggi e conserve, per esempio.
Bisogna valutare il settore di partenza e la mappa del mondo, cercando Paesi con i quali abbiamo libero scambio e la possibilità di stringere accordi commerciali con meno dazi alla frontiera, attraverso i distributori.
All’Europa conviene patteggiare oppure rispondere con contromisure?
Conviene trovare un accordo perché gli Usa sono un importante mercato di riferimento per il nostro export, per salvaguardare l’economia, i posti di lavoro. Va bene ragionare su mete alternative ma c’è poco preavviso, non ci sono al momento destinazioni che sostituiscano il mercato statunitense. Per le aziende italiane l’adozione di barriere protezionistiche del governo Trump è stato uno shock. Tranne Levoni (che ha inaugurato nel giugno scorso il suo primo stabilimento produttivo a Millville, in New Jersey, n.d.r.), nessuna azienda italiana ha considerato un piano B.
Errori da parte dell’Italia e della UE?
I Paesi europei hanno costruito negli anni conoscenze, competenze e strategie aziendale rivolte al mercato Usa con un eccesso di ottimismo, e ha perseguito nella scelta di continuare a crescere in questa direzione nonostante quella destinazione commerciale abbia dimostrato di potersi chiudere molto rapidamente già a partire dal 2018 con la prima presidenza di Donald Trump e, lo scorso anno, nella campagna elettorale del suo secondo mandato. Una regola fondamentale è la diversificazione degli investimenti: mai creare dipendenze finanziarie. Lo abbiamo visto con la Russia.
Foto dal sito web ARcom Formazione
L’attuale situazione mondiale da cosa è stata scatenata? Guerra, equilibri politici, scelte economiche…
Dal 2008 c’è stato un ritorno al protezionismo, un fenomeno evidente e documentato. La recessione di 17 anni fa ha determinato un ripensamento rispetto alla globalizzazione. La crisi del Covid ha dato la spinta finale verso misure protezionistiche, dal 2000 aumentate del 3,5 volte: solo nel 2024 sono sorte alle frontiere 2.800 nuove barriere. La chiusura delle dogane è dovuta a una visione sovranista portata avanti da alcuni Paesi, in Usa da Trump già nella sua prima campagna elettorale, nel 2016.
Secondo lei, conviene agli Stati Uniti questa politica economica?
No, è il motivo per cui le Borse crollano, con conseguenze pesanti sull’economia degli Usa.
Cosa possono fare le aziende italiane per fronteggiare la situazione attuale?
Sono fondamentali la conoscenza e la preparazione. Per dare supporto a imprese e professionisti italiani che operano nel commercio internazionale è nato nel 2016 ARcom Formazione (www.arcomsrl.it, n.d.r.), un ente di alta formazione che organizza corsi a distanza per sviluppare la ricerca e approfondire i vari aspetti. Il corpo docente è composto da oltre 20 esperti del settore tra accademici, doganalisti, avvocati e commercialisti. Parte l’11 aprile prossimo la Masterclass Trade War Export, un percorso formativo per guidare le aziende in questo momento critico, per far capire – faccio alcuni esempi – quali sono i prodotti interessati, le nuove regole di calcolo dei nuovi dazi, quali accorgimenti contrattuali si possono mettere ancora in campo per limitare l’eccessivo impatto di queste tasse doganali, per esplorare mercati alternativi e ragionare in termini di diversificazione di destinazione finale.
* avvocato fiscalista, docente di diritto doganale in diverse università italiane, presidente della Commissione Dogane e Trade Facilitation ICC Italia, direttore Scientifico di ARcom Formazione, relatore in convegni internazionali, autore di monografie del settore
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