Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”. È la citazione più famosa dal romanzo “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, ma potrebbe essere anche il pensiero di Salvatore padre e Salvatore figlio, titolari della pizzeria Gorizia di Napoli. Dopo 108 anni, lo storico locale chiude per poi ritornare. Una ristrutturazione necessaria, più operativa che estetica: «Non si sa quando riapriremo, ma sappiamo che non cambierà nulla». Quel forno non ci sarà più, ma quella foto in bianco e nero del 1925 appesa al muro di fianco forse sì.
È un fotogramma di un film con in primo piano Leda Gys, sullo sfondo la vetrina di un negozio con una scritta “Colezioni alla forchetta” dove appoggiato allo stipite dell’ingresso c’è un uomo con una giacca bianca da lavoro, è Salvatore Grasso. «Mio nonno», sorride Salvatore che di lui porta non solo il nome, ma anche l’eredità di una delle pizzerie più storiche di Napoli. «Il vetraio sbagliò a fare la scritta», ma quel “fare” della forchetta era, però, quello giusto: «La gente veniva col pane lo apriva a metà e diceva “Don Salvatò mettettimi na’ furchettata”… potevano essere friarielli, carciofi o qualsiasi altra cosa la cucina avesse preparato quel giorno».
I due Grasso, Salvatore e Salvatore, padre e figlio
Gorizia è stata la prima pizzeria di un quartiere, il Vomero, che stava appena nascendo e Salvatore in quelle sale, arredate con garbo e semplicità, c’è nato: «Quando si faceva tardi la sera mi mettevano a dormire nella madia dove si impastava. All’epoca si facevano cinquanta tavoli di pasta, una media di 750 pizze, ma la nostra è sempre stata diversa da quella di giù – racconta Salvatore riferendosi a un centro storico che della famosa forma strabordante a ruota di carro ha fatto il suo portavoce – La nostra, invece, è a fazzoletto». Con 180 grammi di impasto che entrano perfettamente in un piatto: «E non rimane sullo stomaco perché è sempre ben lievitata».
I primi a sedersi furono proprio gli operai, poi quando nel 1932 Gorizia diventò pure ristorante da qui iniziò a passare tutta la nobiltà dell’epoca con i piatti che variavano ogni giorno seguendo il copione della cucina napoletana più verace. «Zia Titina mi raccontò che il Duca Pironti, proprietario dell’immobile, disse un giorno a mio nonno: “Salvatò oggi a pranzo arriva una persona importante mi raccomando”. Era il principe De Curtis, in arte Totò. A quei tempi si facevano solo la margherita, la marinara e il ripieno – Salvatore, allora, si vestì a dovere e si guardò intorno, in cucina avevano appena preparato dei carciofi – E oggi la marinara coi carciofi è ancora la nostra pizza simbolo. Gli piacque assai al principe comunque…». Salvatore lo dice come se ci fosse stato anche lui, perché quella storia l’avrà sentita così tante volte da suo nonno che sarà diventata pure sua. «Passò da qui un altro paio di volte – racconta ancora; non saranno diventati amici, ma Totò consigliò a Salvatore di comprarsi una cappella al cimitero visto che si erano liberati dei loculi – e oggi mio nonno è sepolto vicino a Totò».
108 anni sono passati da quando quel forno ha iniziato a funzionare e in 108 anni sembra che nulla sia cambiato, la sede è sempre la stessa, in via Bernini – «nessuna succursale in giro per il mondo», commenta ammiccando ai pizzaioli globe trotter – ma Salvatore non rinuncia a una stoccata a chi di dovere: «Come pensano di tutelare locali come il nostro, entrati nell’albo delle botteghe storiche della città di Napoli? Perché in realtà, per restare in vita, dobbiamo sottostare a qualsiasi richiesta». A partire magari anche da un caro affitto. «Ma noi resistiamo e qui staremo, ecco perché stiamo ristrutturando». Quella di Salvatore è una forma di stanzialità, di radicamento, che si riversa anche su chi lavora con lui: «Questo forno da quando è stato accesso ha visto le mani solo di 5 pizzaioli: mio nonno, mio padre, un altro Salvatore, poi Enzo e ora un altro Enzo che sta con noi già da 16 anni». Un radicamento forte, emozionale, quello di Salvatore: «Io il profumo della pizza marinara preparata da mio nonno e tagliata sul tavolo di marmo me lo ricordo bene. Non esisteva la pausa pranzo, allora, e chiunque dei camerieri che passava si prendeva un pezzo di pizza e continuava a lavorare».
Era solo un ragazzino all’epoca, ma quando nel ‘62 suo nonno lasciò, Salvatore non ci pensò due volte a rilevare l’attività: «Non vi dico i debiti che ho fatto, ma dopo quindici anni sono riuscito a liquidare tutti i miei soci e oggi sono l’unico proprietario insieme a mio figlio». Anche lui Salvatore, ma per tutti Toto e anche lui cresciuto nella farina: «A cinque anni si metteva con lo sgabellino e si faceva la sua pizza». Salvatore padre si emoziona ancora nel ricordare la prima volta che Toto portò su un piattino d’argento “una mille lire” di resto a un cliente: «Rimase lì, immobile. “Toto ma che stai facendo?”, gli chiesi. E lui: “Aspetto la mancia”. Eh sì, ce l’aveva nel sangue questo mestiere!», sorride il papà.
Oltre a Totò, qui da Gorizia è passato il mondo. Solo per citare alcuni, napoletani e non: Vincenzo Salemme, Silvio Orlando, Michele Placido… e continuano a passare tutti i più grandi attori di scena al vicino Teatro Cilea. Eppure, secondo Toto (il figlio di Salvatore) mancava qualcosa, qui… una cosa che poi mancava in tutte le pizzerie di Napoli: non c’era vino, o almeno vino di qualità. Che per lui voleva dire Champagne. «Mi è sempre piaciuto bere bene, così ho pensato che pure i nostri ospiti dovevano bere bene». Ecco allora che si applica alla carta dei vini che oggi arriva a proporre 250 etichette. «Un giorno arriva una comanda: una marinara e una bottiglia di Dom Pérignon astuccio verde – racconta Toto – Era la seconda volta che quel cliente tornava. Non ricordo quale Champagne gli avessi servito, allora. Alla fine vemgo a sapere che era un dirigente del gruppo LVMH, proprietaria di maison come Krug, Moët & Chandon, Veuve Clicquot e Château d’Yquem…»
I due parlano e Toto capisce che la strada giusta è creare una carta vini dai prezzi accessibili, facendo cadere dal piedistallo l’irraggiungibilità di alcune grandi etichette. «In Italia lo Champagne è visto ancora come il Santo Graal mentre in Francia è un vino normale, triplicare il prezzo significava solo renderlo ancora più inaccessibile». Così dal giorno dopo quell’incontro sulle tovaglie di lino della pizzeria c’erano solo bicchieri Riedel e bottiglie di bollicine pronte per essere sbicchierate. «Inizio a litigare con mio padre, ma la mia speranza era quel gruppo di miei amici che ogn i settimana venivano e ordinavano Champagne, perché erano appassionati e perché volevano sostenere la mia scelta – racconta ancora Toto – Così, piano piano, i bicchieri hanno iniziato a riempirsi su tutti i tavoli. E se rimaneva una bottiglia che avevo già aperto, la offrivo ai clienti». Fino a quando tra quegli stessi tavoli non si siede proprio Remy Krug e Toto inconsapevole di chi fosse assaggia il suo primo calice di una della più grande maison di Champagne scambiandolo per un pessimo Franciacorta…
Sorride ancora al ricordo, oggi che la sua pizzeria è, invece, entrata nel prestigioso progetto Ambassade di Krug. Pochi i ristoranti italiani insigniti di questo prestigioso riconoscimento, ma ancor meno poi le pizzerie: «Siamo solo due, l’altra è a Varese». E ora Salvatore – Toto per tutti – ha un motto: «Chi ha fatto la storia racconta la sua storia, chi la sta facendo la racconterà». E oggi che questo forno storico si sta spegnendo dopo 100 (e 8) anni di gloriosa carriera, Salvatore Grasso non ha dubbi: «la storia continuerà». E lui sarà qui a raccontarla.
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