“La Puglia è cambiata: ha perso i pasti a 10 euro ma ha rivendicato la dignità” Intervista allo chef Maurizio Raselli

5 Lug 2024, 11:17 | a cura di
Ormai, puntuale come la taranta a Melpignano, ogni anno si apre una polemica su questa regione mosaico. Ecco la visione - etica e radicale - dello chef di 3 Rane Ristoro a Lecce

A quando risale la “scoperta” del Salento? Quand’è che l’hashtag #weareinpuglia è diventato virale e tutti hanno voluto venire in Puglia?  O bisognerebbe dire, come un tempo, nelle Puglie, polimorfe e intriganti dal punto di vista naturalistico, turistico, gastronomico per viaggiatori e riviste non solo del settore (National Geographic su tutte)?

Vale la pena porsi queste domande perché ormai ogni anno si aprono le polemiche su questa regione: diatribe sui numeri, sui trend e sull'identità.
Sono passati quasi 20 anni, dalla prima amministrazione Vendola del 2005, che creò la prima agenzia dedicata al turismo da parte di un ente regionale in Italia: da allora Salento e Puglia sono sulla cresta dell’onda.

Eppure, ogni anno si preconizza una battuta d’arresto, magari accusando di banalità orecchiette e panzerotti, giusto per citare un paio di elementi identitari legittimamente e gustosamente ricercati. Oppure c'è chi si lancia in avventurosi paragoni con attrattivi e meritevoli luoghi del Mediterraneo, sempre più à la page.

Maurizio Raselli

Non sarà questa la sede per stabilire torti o ragioni, ma è assai interessante la voce di Maurizio Raselli, patron e chef di 3 Rane Ristoro, da Alessandria a Lecce con (e per) amore. Arrivato in città nel 2017 ha alzato l’asticella della ristorazione, concreta e concettuale.

44 anni, allievo di Giorgio Locatelli (oggi cliente frequente di 3 Rane), gavetta nelle osterie di Liguria e Piemonte mentre si laureava in Scienze della Formazione, lungo curriculum internazionale nella luxury hotellerie (hotel Missoni tra i suoi più amati perché «la bellezza si ricerca») e infine questa «sala artigianale di 5 tavoli, dove finalmente ho smesso di fare lo chef e sono ritornato cuoco». La chiama “cucina artigiana” ma è un fine dining democratico (menu degustazione a 35/50/70 euro) e rappresenta una delle più riuscite varianti della ristorazione oggi presenti sul territorio.

Su Puglia e lusso sgombera subito il campo: «Non è una terra che non attrae il lusso; la Puglia è talmente stilosa che attrae un lusso discreto. Io ho ospiti che arrivano con aereo e autista privato, atterrano a Galatina, dormono a Castel Elvira, arrivano in infradito, mangiano e ringraziano per la gioia e l’informalità. Le stelle e in genere i riconoscimenti, le etichette etero-imposte – che viviamo da provinciali – servono soltanto a impoverire il concetto di bellezza. Il lusso di Puglia riguarda le persone, il modus, non l’oggetto. Ci si attacca a stereotipi ma i cliché sono esclusivi, nel senso che escludono».

Riavvolgiamo il nastro a vent’anni fa

«Il mio primo incontro con il Salento – dice lo chef – risale a Milano e Bologna e agli studenti fuorisede, quando la Puglia nell’immaginario collettivo era quella dell’impenetrabile dialetto foggiano o del barese di Lino Banfi con i sottotitoli in arabo, e il Salento coincideva con il racconto di una terra lontana, un mondo esotico (argomento ampiamente trattato nell'intervista con Nando Popu dei Sud Sound System, ndr). Quando sono arrivato per la prima volta avevo 19 anni ed ero sconvolto dalla lentezza, dalla bellezza e dalla capacità contemplativa di persone che ancora non perdono il contatto con la natura, con le stagioni e con le feste rituali, che non dimentichiamo servono a quello: a scandire il tempo.

Quello che c’era a fine anni 90 era una fiera e solida base umana e commerciale: non si vendevano le rape a luglio per intenderci. Con buona pace di chi vuole tutto subito e in qualunque momento dell’anno».

Cosa è cambiato e come?

«Si può dire che io sia un testimone di questa realtà da quasi 25 anni e oggi ne sono parte. Nei primi anni 2000 la Puglia ha scoperto un potere commerciale che non poteva limitarsi più all’accomodation, ai primi turisti “avventurosi”, con poche informazioni e una lingua che non si capiva. La Puglia ha avuto la prontezza, come ce l’hanno le persone avvezze al lavoro e ai capricci del tempo e della natura, e la lucidità di sguardo per capire che il proprio patrimonio era spendibile. E qui c’è un enorme "però": la Puglia è riuscita a rendersi spendibile senza saturarsi. La fierezza dei salentini, un’enclave misteriosa i cui confini ancora sfuggono, ha dapprima ricoperto un ruolo di somministratori di servizi scadenti, non strutturati.  Strumento maldestro ma usato in modo puro e poi continuativo.
Vorrei dire che non è cambiato niente ma sono cambiate invece tante cose. Abbiamo oggi imprenditori di seconda generazione, che hanno l’orgoglio di preservare il territorio e le sue potenzialità, la sua cultura, persino i suoi difetti. Sono riusciti a costruire una trama, al di là della soddisfazione del turista, dei suoi desideri capricciosi.

Ci sono delle verità nella tradizione, in senso assoluto, non solo gastronomico, che non possono essere semplicemente accantonate. Per rispetto ma anche per una forma di furbizia: non esiste ordito senza trama. Un esercito di lavoratori, militi ignoti, che sono la struttura che regge il ricamo».

Tu rappresenti e rivendichi un modello etico, che non è solo il tuo, e nel modo più contemporaneo possibile coniuga radici – perché sei radicale – e futuro

«Proseguendo sul punto di una Puglia che è cambiata, che ha raffinato l’offerta, non si può dimenticare che c’è chi ha potuto affrancarsi. Questa esplosione di notorietà ha portato, certo, alla perdita dei pasti a dieci euro. Ma in quei ristoranti il personale non veniva sempre pagato e spesso era pagato male. E invece la tradizione ha concesso di rivendicare la dignità, l’appartenenza: che sia l’appartenenza alla brigata di un ristorante o a un contesto culturale l’appartenenza non è esclusiva, non è una dichiarazione di guerra a chi non appartiene a quel circo. Il valore non si dà attaccando, il valore si dà suggerendo. Il vero scoglio da superare è la partigianeria a tutti i costi. La tendenza occidentale a stabilire cosa è giusto e cosa sbagliato.

Essere uguali è una fatica, è un privilegio, essere insieme è un dono; essere soli e dire che gli altri non capiscono è immaturo in termini sociali.

Io mi commuovo e mi chiedo: ma non si potrebbe solo fare da mangiare? Magari ringraziando per l'indicibile fortuna di far parte del benessere di qualcun altro!

La mia cucina è “comprensibile”, fatta di tre ingredienti, senza barocchismi. Quello che cerco di fare è corrispondere alla scelta dell’ospite. Già solo questo, essere scelti, preferiti, è meraviglioso. Vale per me, vale per il territorio».

“Arrivo!” perché intanto che Maurizio parla, cucina. Il servizio pranzo è in corso. E questa commistione di profumi, piatti, lavoro, digressioni sulla Puglia, il mondo, la società è tanto concreta quanto aulica.

«Abbiamo una meravigliosa clientela di persone felici. Non m’importa del loro portafoglio, lo conosco. Non abbiamo bisogno, noi come ristorante e noi come genere umano, di valutare le persone sullo spessore della loro carta di credito».

Si fa business, sia chiaro, e per quel che vale 3 Rane è cresciuto del 300% nell’ultimo anno. Ma come dice Maurizio, che ha «avuto la fortuna di essere educato da galantuomini», è più importante l’uomo di quanto l’uomo produca. Cosa serve per il futuro? «Più passi indietro e meno attenzione mediatica verso i professionisti, non prendiamoci troppo sul serio. Bisogna far contente le persone, non c’è niente che paghi di più».

Ultima domanda: quali realtà virtuose attorno a te?

Giovanni Pizzolante, fondatore di FoodExp.

Mirko Verdesca e Cristian Collura del Blue Beat - birreria premiata da Gambero Rosso - , che hanno creato una “sacca di resistenza” partendo dalle controculture della disobbedienza. Quel tipo di locale dove allo stesso tavolo c’è il grande imprenditore e quello dalle mani tagliate dal lavoro.

È la Puglia, tante Puglie, tutte intorno al desco.

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