Indipendentemente dalle posizioni di uno o dell'altro, l'impatto degli allevamenti intensivi sull'ambiente a causa delle emissioni causate da ogni struttura dove vengono tenuti gli animali e non solo, è innegabile. Come risolvere il problema è un dibattito sempre acceso, anche perché appunto le opinioni, non potrebbero essere più differenti: ci sono gli allevatori che ne sostengono i benefici e gli allevatori che, invece, hanno scelto una strada più ispirata alle questioni ecologiche. Ci sono gli animalisti, che mettono in primo piano la questione etica della sofferenza praticata su esseri viventi senzienti. E c’è la scienza che reputa eccezionale la carne sintetica al posto della bistecca.
Pitoni al posto delle Chianine?
Tra le varie tesi, rientrano anche alcune nuove ricerche pubblicate recentemente sulla rivista Scientific Reports che suggeriscono una nuova soluzione: l’allevamento dei pitoni come alternativa praticabile agli allevamenti convenzionali di bestiame soprattutto in quelle regioni del mondo dove la crisi climatica, le pandemie e il consumo estremo del terreno agricolo stanno minacciando la produzione alimentare. A condurre gli studi su alcuni allevamenti di questa specie di serpenti in Thailandia e Vietnam e a spiegare che «sulla base di alcuni dei più importanti criteri di sostenibilità, i pitoni risultano superiori a tutte le specie allevate tradizionalmente e studiate finora», è stato il dottor Daniel Natusch, ricercatore e Presidente del Gruppo specializzato in rettili dell’IUCN, l’Unione Mondiale per la Conservazione della Natura.
I serpenti alternativa sostenibile
Quali sarebbero questi parametri, è presto detto: in sostanza, i pitoni generano meno gas effetto serra, richiedono meno acqua degli animali a sangue caldo, sono più resistenti a condizioni climatiche estreme e non trasmettono patologie pericolose, come l’influenza aviaria o il COVID-19. Senza contare che in più i rettili si sono dimostrati essere una fonte di proteine più efficiente rispetto a pollame, suini, bovini e salmoni. Insomma, per il professore australiano il pitone sarebbe la soluzione perfetta per mettere fine a tutti i problemi che causano gli allevamenti intensivi.
Il bisogno di proteine è in crescita
Pur con forse troppo entusiasmo, Natusch fa alcune considerazioni di cui andrebbe tenuto conto: secondo il professore, infatti, se si parla ancora poco dei vantaggi che si otterrebbero sostituendo la classica Chianina con la carne di serpente, non è perché non ci siano, ma piuttosto perché il sistema convenzionale tende a difendere ancora gli allevamenti intensivi. Un vero peccato, soprattutto vista la carenza di cibo che continua a compromettere la salute di milioni di bambini nelle regioni più povere del mondo e dove il bisogno di proteine di alta qualità sta aumentando vertiginosamente.
Basti pensare al bestiame che stramazza in mezzo ai campi a causa della siccità senza precedenti che ha colpito l’Africa e pensare allo stesso tempo quanto i rettili, invece, potrebbe rappresentare un punto di svolta per gli allevamenti essendo capaci di regolare i propri processi metabolici e di mantenere il corpo in buone condizioni anche durante le peggiori carestie.
«Alcuni dei pitoni oggetto del nostro studio hanno smesso di mangiare per quattro mesi - il 45% della loro esistenza - senza nessuna ripercussione sulle loro condizioni fisiche» ha raccontato il co-autore del documento, il Dottor Patrick Aust, ecologista che vive in Africa, aggiungendo «proviamo a immaginare di non nutrire un pollo per quattro mesi: dopo quattro o cinque giorni sarebbe già morto».
Un rettile in cambio di un arrosto
Natusch e Aust non hanno troppi dubbi e sono convinti dei risultati della loro ricerca e che i pitoni potrebbero davvero significare la svolta per una produzione di carne più sostenibile. D’altra parte, sostengono, con il peggioramento della sicurezza alimentare globale a causa del cambiamento climatico e il settore agricolo che risentirà della diffusione delle malattie infettive e della diminuzione delle risorse naturali, non c'è dubbio che i rettili diventeranno a quel punto un’alternativa obbligata.
Difficile dire quante persone sarebbero tentate di abbandonare un gustoso arrosto per mangiare la carne di pitone. Diciamo che con la farina di insetti non stiamo andando molto bene. La curiosità dei consumatori c’è, ma esiste anche una sorta di senso di ribrezzo per un prodotto che, se in altre culture è già un cibo talvolta anche pregiato, in Occidente fa fatica a ottenere lo stesso gradimento. È vero, però, che se la reazione più frequente davanti a nuovi cibi come possono essere appunto gli insetti, è il rifiuto del loro utilizzo, tra gli chef stellati o meno, c’è chi è più possibilista e quantomeno si apre alla sperimentazione di nuovi piatti: tra questi lo chef Loris Caporizzi, che è anche un esperto in entomofagia, il quale da tempo propone piatti a base d'insetti ritenendo che «individuare fonti alimentari alternative non sia più una scelta, ma sia ormai una necessità».
Posizione totalmente opposta quella dello chef Enrico Derflingher, dal 2014 Ambasciatore della Cucina italiana, secondo cui il rifiuto è dovuto essenzialmente a una questione di cultura: senza, infatti, disdegnare affatto mangiare serpenti, api, grilli o altri insetti, assaggiati peraltro in giro per il mondo, Derflingher ha chiaramente fatto sapere che tali animali «non entreranno nella sua cucina». E non perché dal sapore cattivo, ma perché non hanno nulla a che fare con la nostra storia, cucina e tradizione.