Tra le allerte ambientali più pressanti, c'è l'impoverimento dei mari dovuto all'effetto combinato del cambiamento climatico e dell'azione dell'uomo: un terzo degli stock ittici è gestito oltre i livelli biologicamente sostenibili e si stima che il 30-50% degli habitat marini critici sia andato perduto a causa dell'industrializzazione. In questa prospettiva, un dato ancor più allarmante è che quest'ultima non viene completamente tracciata.
Lo dice la rivista Nature che riporta i risultati di un'indagine realizzata tra il 2017 e il 2021 combinando immagini satellitari, dati GPS delle imbarcazioni e modelli di deep learning proprio per riuscire a mappare le attività delle imbarcazioni industriali e le infrastrutture energetiche offshore nelle acque costiere del mondo. Un'enorme raccolta e analisi di dati, posizioni GPS, immagini radar e satellitari che riescono a rilevare la maggior parte degli oggetti di dimensioni superiori a 15 metri.
La blue economy
A pesare sulla salute dei mari è una blue economy del valore di oltre 2 trilioni di dollari che incide sempre più sull'economia globale e – con segno negativo – sull'ambiente, come conseguenza dello sfruttamento delle acque non solo per la pesca, ma anche per l'attività delle navi per il trasporto e l'energia, l'estrazione petrolifera (circa il 30% del petrolio mondiale) e minerale, la produzione di energia rinnovabile, l'eolico e l'acquacoltura. Insomma: esiste un'enorme fetta dell'economia mondiale che nasce e si sviluppa negli oceani determinandone una industrializzazione il cui impatto è ancora difficile da valutare perché queste attività non vengono correttamente monitorate: molte imbarcazioni marittime, per esempio, non trasmettono la loro posizione o non vengono rilevate dai sistemi di monitoraggio pubblici mentre le informazioni sullo sviluppo delle infrastrutture offshore e di altre attività industriali sono spesso private. Proprio su questo si è concentrata la ricerca di Nature, che ha rilevato come circa il 75% dei pescherecci industriali del mondo – che operano soprattutto nell'Asia meridionale, nel Sud-est asiatico e in Africa - non sono tracciati pubblicamente con i sistemi di identificazione automatica (i cosiddetti AIS, che possono rivelare anche posizione, movimenti, identità e attività delle navi) e così accade anche per il 21-30% delle navi da trasporto ed energia. Questo significa che risulta pressoché impossibile analizzare dove e come la blue economy stia influenzando le nazioni in via di sviluppo e le comunità costiere. Un tema quanto più urgente, dato che più di un miliardo di persone dipendono dall'oceano come fonte primaria di cibo e si stima che siano 260 milioni le persone impiegate nella pesca marina.
Il sistema di monitoraggio delle imbarcazioni
La difficoltà a tracciare le imbarcazioni dipende dal fatto che i sistemi di identificazione automatica non sono obbligatori in tutti i paesi e per tutte le navi e possono essere spenti e manomessi, come accade per molti casi di pesca illegale, senza contare che esistono alcuni punti ciechi di scarsa ricezione satellitare mentre alcune nazioni possono volutamente limitare il monitoraggio. Per le navi oscure, quelle non tracciate pubblicamente, lo studio ha cercato di aggregare diverse fonti di dati, come per esempio immagini satellitari e altri sistemi, ne è emerso che a non trasmettere la propria posizione sono soprattutto le imbarcazioni da pesca.
La presenza di pescherecci
Nel periodo di analisi (tra il 2017 e il 2021), sono state rilevate circa 63.300 imbarcazioni negli oceani, in qualsiasi momento, di cui circa la metà (42-49%) da pesca (sulla base di 23,1 milioni di rilevamenti di imbarcazioni). La cosa rilevante, è che circa tre quarti (72-76%) della pesca industriale mappata a livello globale non compariva nei sistemi di monitoraggio pubblico, a differenza di quanto accadeva per altre attività, in cui le navi oscure sono circa un quarto (21-30%). Ovviamente l'attività dei pescherecci non è uniforme durante l'anno: festività, moratorie sulla pesca e altri eventi condizionano l'attività come è stato anche per il periodo della pandemia (che invece non ha condizionato le altre attività di trasporto ed energia), ma i dati sono comunque emblematici.
Se le mappature ufficiali indicano che l'Europa e l'Asia hanno un'attività di pesca paragonabile, (mentre gli altri continenti hanno meno di un quinto dell'attività), tracciando anche le imbarcazioni che non trasmettono la loro posizione, si scopre che la realtà è ben diversa: il 70% di pescherecci industriali sono in Asia, e quasi il 30% nella sola zona economica esclusiva (ZEE) della Cina.
Per quanto riguarda il Mediterraneo, i dati ufficiali dicono che le ore di pesca nelle ZEE dei Paesi europei sono più che decuplicate rispetto ai Paesi africani, lo studio rileva invece che sono più o meno equivalenti. Nell'area tra la Tunisia e la Sicilia, inoltre, si nota come i pescherecci tracciati pubblicamente e quelli oscuri si muovono lungo i banchi oceanici e i bordi dei canyon dei fondali, una caratteristica della pesca a strascico, cosa che accade anche al largo delle coste del Bangladesh (dove il livello di tracciamento è bassissimo) seguendo in contorni che si irradiano dal delta del Gange. Questi rilievi consentono anche di intercettare zone di pesca illegale, per esempio nella parte occidentale della penisola coreana che ha registrato la più alta densità di pescherecci al mondo dal 2017 al 2019 (circa 40 pescherecci per 1.000 kmq) e nelle aree marine protette (AMP) come la Riserva marina delle Galápagos e il Parco marino della Grande barriera corallina, con – rispettivamente - più di 5 e 20 pescherecci a settimana.
Il ruolo delle infrastrutture petrolifere ed eoliche
A condizionare l'attività dei pescherecci anche la presenza di infrastrutture petrolifere ed eoliche che influenzano il traffico navale e la pesca: i pescherecci a strascico, i più comuni a livello globale, si tengono a distanza di 1 km dalle strutture petrolifere, probabilmente per evitare che le reti si impiglino, problema inesistente per altri tipi di pesca che invece trovano, in queste strutture, un elemento di aggregazione di pesci.
Con questo studio Nature evidenzia i punti critici della pesca a livello globale, l'industria oceanica con il maggior numero di attività non pubbliche e potenzialmente illegali, mettendo in luce quali sono le zone più a rischio, identificando i pescherecci industriali che invadono le zone di pesca artigianale o le ZEE di altri Paesi, e rilevando anche le emissioni di gas serra.
C'è una buona notizia: la pesca è l'industria oceanica che ha registrato minore incremento negli ultimi anni, quando non una diminuzione. I motivi possono essere molteplici: da una parte si è già raggiunto un picco di pesca che ha già sfruttato le acque al massimo delle possibilità, d'altro canto però molti paesi si sono impegnati per regolamentare la pesca, non bisogna però dimenticare che l'azione delle imbarcazioni per il trasporto e l'energia (la cui crescita dovrebbe continuare) potrebbe avere un impatto pari a quello della pesca per gli ecosistemi marini.