Nessuno lo sa ma il Pecorino Romano era la "barretta energetica" degli antichi Romani

20 Nov 2024, 08:02 | a cura di
La storia del Pecorino Romano risale all’epoca dell’impero romano, e ad oggi la sua lavorazione non è molto cambiata

Ventisette virgola quattro grammi. Un oncia, l'unità di misura coniata dagli antichi romani, era – racconta Virgilio – la razione giornaliera fornita con il rancio ai legionari romani durante le lunghissime campagne belliche, in aggiunta a un tozzo di pane e una zuppa calda di verdure di campo e farro. Il formaggio di pecora era una "barretta energetica" ante litteram, importante fonte di calcio e di proteine (guada la puntata di ABCheese su Gambero Rosso Tv). Nei palazzi imperiali era il protagonista durante i banchetti, e nel nel 50 d.C. scrive così l’agronomo Lucio Giunio Modesto Columella nel suo De re rustica: «Il cacio migliore è quello che è stato fatto col minimo possibile di medicamento». Il trattato di agronomia e zootecnica in dodici volumi, che rappresenta la maggiore fonte di conoscenza circa l'agricoltura romana, fornisce la ricetta (sulla quale si basa quella usata ai giorni nostri) della prima lavorazione del formaggio ottenuto con il latte delle numerose greggi di pecore che viaggiavano con le legioni, durante l'espansione di Roma.

La ricetta di Columella

Come si fa oggi il Pecorino Romano? Prima di tutto con un ottimo latte di pecora da greggi allevate allo stato brado e alimentate a pascolo naturale. Secondo il disciplinare, il latte, lavorato direttamente crudo oppure termizzato, deve essere raccolto raccolto in vasche di coagulazione dove si aggiunge il «scotta innesto», un fermento preparato tutti i giorni dal casaro: questo insieme di batteri lattici autoctoni è uno degli elementi caratterizzanti del Pecorino Romano. Il latte viene poi scaldato e coagulato con caglio di agnello (liquido di origine animale ricco di enzimi).

Quando si forma "il budino" ossia il coagulo, il casaro lo frantuma con uno strumento detto "lira". Come l’antico strumento musicale a corde, la lira taglia la cagliata con una quantità di fili d'acciaio sottili per ottenere frammenti della misura di un chicco di grano. Avviene poi una pressatura della massa in parallelepipedi da 50 kg circa, posti in fascere per dare la prima rozza forma cilindrica. Dopo una sosta in camera calda, per favorire l'ulteriore spurgo del siero, le forme vengono marchiate con con il logo della Dop, la sigla del caseificio e la data di produzione. E a questo punto, a nanna per almeno 12 mesi, con numerosi trattamenti da vera spa: massaggi di sale e rivoltamenti.

Ne risulta, dopo uno o anche due anni di stagionatura, una forma compatta di 35 kg dalla pasta granulosa, talvolta leggermente occhiata, dal colore che oscilla tra il bianco candido e il color panna. La pasta si scaglia e al naso rilascia un profumo fresco di erba tagliata, di paglia umida e di latte. Lasciando scaldare appena il frammento in bocca, il gusto è aromatico, lievemente piccante e sapido. L'apporto energetico di quei 27,4 grammi è di 122 kcal. Di 30 grammi, 7,80 sono proteine, 9,93 sono grassi, e 270 mg di Calcio. Una sana dose di Riboflavina (Vitamina B2), e Retinolo (Vitamina A) che fa bene alla pelle. Zero lattosio e zero carboidrati complessi. Roba da gladiatori.

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