Non c’è nessuno a disturbare i tigli: il vicolo dopo la rotonda si allontana dalla strada principale e va a inciampare nei palazzi del quartiere, ammassati uno contro l’altro sul limite dell’immenso nulla, verde e ocra, della campagna lombarda. A nord il profilo della città si mescola alle nuvole posate sul filo del tramonto e vista da qui Milano appare un’idea estranea e irresoluta. Qualcuno deve aver invitato amici da qualsiasi parte del pianeta a una festa segreta e silenziosa, perché le macchine continuano ad arrivare: percorrono la rotonda una dopo l’altra e svoltano tutte nel vicolo, dove si perdono nel nulla.
Bobo & Jack al Rochettino
Il buio della stradina si schiude su una piazzetta pavimentata a cubetti di porfido, arredata sul fondo da due panchine abbandonate lì per i gatti e oltre le panchine un muro di calcestruzzo blocca la strada.
A vederlo così, alto e massiccio, vi sembrerà di aver sbagliato indirizzo, ma poco più là la parete lascia spazio alle luci del ristorante. E lì, c’è Bobo.
Bobo, sulla sua sedia di plastica, e Jack, il bull terrier acciambellato ai suoi piedi, passano tutte le sere tranne quella del lunedì davanti all’Antica Osteria di Ronchettino, Una Forchetta Gambero Rosso, cucina premiata da critici e guide. Sono i custodi del parcheggio: la gente che scende dalle macchine gli sorride, qualcuno lascia qualcosa a Bobo, altri accarezzano Jack e altri ancora ignorano entrambi e passano oltre. Quando lo conosco, poco prima di entrare al ristorante, Bobo mi consiglia cosa prendere a cena e in che ordine, che vino abbinare, che dolci scegliere.
A tavola provo insalata di nervetti di vitello, risotto alla milanese, cervella fritte, cotoletta a orecchia d’elefante, un tortino e Bobo aveva ragione anche sul vino. A cena finita, esco dal ristorante e lo trovo che aiuta una coppia a parcheggiare, mi fa segno di aspettare un attimo, poi si risiede e mi chiede della cena. Gongola soddisfatto quando gli dico che ha indovinato tutto e mi chiede in dialetto stretto se conosco la storia del Ronchettino. E dice: «C’è la leggenda e c’è la storia, ma sono mescolate e non si sa più quale sia cosa. La leggenda racconta che Napoleone si fermò qua a dormire una notte per colpa di uno zoccolo, un ronchetto, rotto. La storia invece racconta dei campi disboscati, i ronchetti e qui in zona ne hai tre: Ronchettone, Ronchettino e Ronchetto delle Rane».
"Quando ero bambino, qui era un trani, un'osteria"
Mentre Bobo parla Jack si mette a cuccia sotto la sedia: fissa con occhi imploranti una ragazza che è appena scesa dalla macchina. È uno sguardo che mendica e implora e Bobo continua a raccontare mentre la ragazza si china ad accarezzare il grosso cane nero, che scodinzola beato.
«Ora c’è il ristorante, ma quando ero bambino il Ronchettino era un trani: si veniva qui a bere e a giocare a carte e la gente si portava il cibo da casa e si cantavano le canzoni della mala, che tanti erano gente della ligéra, che campavano come potevano. Sai cos’è la ligéra, la leggera? Erano persone che stavano male, che cercavano ogni modo per tirare avanti, anche con rapine o furtarelli. Rubavano ogni cosa che serviva: le uova, il carbone da mettere d’inverno sotto le coperte, il riso. E avevano le loro canzoni che parlavano delle loro avventure e la sera stavano insieme, mettendo in tavola quello che avevano trovato durante la giornata e festeggiavano così».
Salsiccione e Zola, la bistecca del magütt
«Mi ricordo – continua il racconto di Bobo – che li vedevo festeggiare ridendo ma che prima di uscire si riempivano le scarpe di segatura o si tappavano i buchi sulla tomaia con il cartone. Alcuni di loro uno oggi mica ci crede siano esistiti davvero! Come lo Sciresa! Lui lo chiamavano così perché a forza di bere aveva il naso rosso come una ciliegia e quando aveva la pancia sottosopra andava nei fossi, a catturare le ranocchie. Appena ne catturava una la inghiottiva viva, davanti a tutti, perché diceva che gli avrebbe mangiato gli avanzi nello stomaco. Io al tempo ero piccolo ma mi chiamavano tra i tavoli a portare il vino e io correvo veloce con le brocche ma senza vedere nulla, che dentro il trani c’era così tanto fumo che pareva scighera! La gente si metteva nei piatti certe fette di zola (il gorgonzola, ndr) che lo chiamavamo “la bistecca del magütt”, del muratore. Chi stava meglio con i soldi portava il salsiccione, che in famiglia da me si mangiava solo a Natale: era un salame grosso, ma grosso, arrivava anche al metro! Ma per il resto a Milano dopo la guerra si stava male, gli affettati erano pochi: mi ricordo che i salumieri mettevano da parte per i poveretti la prima fetta di ogni salame che tagliavano, così chi passava di là lo prendeva e lo portava subito a casa per tutti. Mia nonna mi dava le fette intere con la buccia, mi diceva di mangiarle così, “che è come la buccia delle mele: ha le vitamine!”. Era lavandaia lei, lavorava ai Navigli: io sono nato lì, a via Argelati. C’era un vicolo dove vivevano tutte lavandaie e ogni giorno dopo aver lavato stavano lì a grattarsi la testa per capire cosa cucinare. Erano tutte ricette robuste che ti davano la carica: la mattina a colazione c’era la rüsumada, che si preparava mescolando vino rosso, zucchero e uova. L’uovo magari lo avevi rubato da qualche pollaio e lo zucchero invece lo riuscivi a trovare solo se avevi la vicina ricca che te lo prestava».
"Rane per tutti, nonno andava per fossi"
«Nonna mi cucinava tutto quello che riusciva a inventarsi e Nonno invece andava per fossi: scendeva nei canali, immerso fino alla cinta, lo vedevo d’inverno poverino senza scarpe. Si tirava su le maniche e aspettava: appena un pesce gli passava vicino ZAC! lo afferrava! Pescava a mani nude: lucci, carpe, tinche e soprattutto rane! – è ancora il racconto di Bobo – Erano le sue preferite: mi faceva sedere su uno sgabello vicino al fosso, prendeva un sacco di juta di quelli del carbone e scendeva nell'acqua. Quando ne aveva prese abbastanza tornavamo a casa e si pulivano una per una. Bisognava lavarle e soprattutto asciugarle per bene o non si riuscivano a infarinare. A quel punto le friggevamo nell’olio bollente, un pizzico di sale ed erano pronte! Capitavano giorni che tutti i poveretti del palazzo mangiassero rane nello stesso momento, calde e croccanti: erano la fine del mondo. Ora non si trovano più, sono spariti anche i gobi in carpione: erano pesci piccoli, che andavano fritti e messi nei vasetti, sotto aceto. Si lasciavano così, a fermentare, un paio di mesi, con le spezie a insaporire: il pepe, la cannella, i chiodi di garofano… Quando li tiravi fuori bastava stenderli sul pane caldo croccante, con un filo di burro e che sapore che avevano, era incredibile! Ma non li trovo più...»
Un secolo di cucina della vecchia Milano
Bobo riesce a raccontarmi quasi un secolo di cucina milanese senza smettere di salutare tutti i clienti che entrano ed escono dal Ronchettino. Alcuni di loro restano qui ad ascoltarlo per qualche minuto, altri allungano le orecchie senza fermarsi, straniti da quella lingua che non riconoscono.
Il milanese di Bobo è strettissimo ma cerco di interromperlo il meno possibile, domandando il significato delle parole che non capisco solo se non riesco ad afferrarlo neanche con l’immaginazione.
Mulèta, curnitt, batüda, verserat: a volte a chiedere una traduzione è una delle persone che si sono fermate ad ascoltare, gente che abita in città.
Il dialetto di quell’uomo, che è anche il loro, gli suona all’improvviso estraneo e socchiudono gli occhi protendendosi verso Bobo, quasi che la vicinanza possa fargli comprendere meglio.
Li vedo piegare la schiena fino quasi a inchinarsi: riconoscono quel codice sinfonico ma stasera gli suona stranamente distorto, come se tra le parole del loro dialetto ne fossero apparse all’improvviso di nuove e inventate, messe lì da un giullare dispettoso.
Bobo, sistemato sul suo trono, richiama a sé Jack con il guinzaglio quando il cane esagera nell’implorare carezze dagli sconosciuti.
«È proprio un balòss, fa il furbo, scusate…»
"Le tradizioni vanno e vengono..."
Quando l’ultimo cliente va via, restiamo di nuovo soli.
La luce in strada ormai è soffocata dal buio e le nuvole notturne plasmano le ombre intorno a noi mutando di forma in forma, elastiche come cartilagini tese tra due mondi.
Il volto di Bobo è luminoso e cupo, in bilico sui ricordi.
«Le tradizioni passano e ne arrivano altre, anche voi a Roma no? E di tradizioni se ne possono sempre inventare di nuove! È che mi manca. Mi manca preparare i mondeghili, quando si cucinavo perché era avanzato il bollito di due giorni prima e allora via a tritarlo, pane secco ammollito nel latte, verdura, scorza di limone e uova. Mi manca mangiare la trippa con i fagioli bianchi di spagna, il sugo, la carote e le cipolle. Mi mancano le osterie che mi facevano tenere la bottiglia di vino a tavola senza portarsela via dopo avermi versato un bicchiere. Mi manca il fumo del toscano tra i tavoli. Mi manca tutto quel periodo così scomodo e finisco per mettermi a pensare».
Quel poco di luce elettrica avanzata dai lampioni fa risplendere gli occhi lucidi di Bobo, mentre Jack ciondola la testa tra le sue mani e le mie, mai sazio di carezze.
Quando la luna si libera finalmente delle nuvole un nuovo e antico chiarore rischiara il buio del parcheggio, svegliando le cicale.
Bobo dice che è meglio se non faccio tardi e salgo in auto, che il vento è freddo.
Mi saluta con la mano mentre la macchina si allontana e continua fino a che l’argento della luna non lo inghiotte.