Quando si indaga sulla natura, gli atteggiamenti che vengono assunti dagli uomini sono di tipo religioso (la natura come espressione della divinità) o di tipo razionale nella convinzione che i fenomeni naturali siano spiegabili dalla ragione. Questa distinzione mette in crisi il rapporto spesso conflittuale tra natura e cultura, tra ager e silva per dirla con i romani o physis e nòmos per dirla con i greci. Andando al vino e, nello specifico a quello che abbiamo visto nell’inchiesta di Report dello scorso 18 gennaio, il rapporto tra lieviti spontanei e lieviti selezionati.
La disinformazione sui lieviti
Facciamo chiarezza. I lieviti selezionati utilizzati in enologia, spesso oggetto delle attenzioni dei consumatori meno preparati, rappresentano un esempio di quanto la disinformazione alteri la realtà dei cibi che consumiamo. I lieviti “artificiali”, infatti, sono utilizzati per la lievitazione del pane, nella produzione della birra, negli starter per la conservazione dei salumi. I lieviti sono soprattutto nell’aria e negli ambienti dove si producono gli alimenti e la loro biodiversità non è più quella delle origini perché viene continuamente contaminata positivamente dal miglioramento genetico e dalle mutazioni spontanee. Nella trasmissione Report bastava far parlare un ricercatore universitario per avere queste semplici spiegazioni.
Il compito dell’informazione
Tecnica e tecnologia evolvono, le fonti di informazione si moltiplicano, ma purtroppo la competenza non corre alla stessa velocità e la scienza non sempre viene divulgata, fake news, disinformazione, allarmismi, ne limitano una diffusione corretta. Gabriel Tarde (1903) affronta per primo il tema della divulgazione dei lussi o populuxe. Un'innovazione, sottolineava Tarde, entra nel mercato come la stravaganza di un'élite prima di trasformarsi definitivamente, passo dopo passo, in un bisogno di tutti e da tutti considerato indispensabile. Quello che una volta era un lusso diventa nel tempo una necessità, infatti, l’innovazione può partire dai ranghi più bassi del popolo, ma la sua estensione dipende dall'esistenza di una certa componente di socialità elevata.
Il collo di bottiglia è quindi la grande carenza di formatori e comunicatori che coniughino le competenze tecniche con la capacità di farsi non solo comprendere, ma anche di affascinare chi ascolta o legge. Qualsiasi sia il canale di comunicazione! Prima di schierarsi con ciò che è “senza” bisognerebbe essere certi di avere consapevolezza e conoscenza di ciò che è “con”. L’alternativa che abbiamo di fronte non prevede di rimanere fermi. Solo un’informazione precisa, aggiornata e diffusa può davvero guidarci verso il passaggio che ci aspetta e creare le premesse di quella riconciliazione con il futuro che è uno dei compiti più urgenti della nostra cultura.
Il futuro del vino
Quali riflessioni, quindi, possono venire dopo aver visto la puntata di Report? La necessità di costituire delle filiere vitivinicole, coniugando sostenibilità e qualità, coinvolgendo sia il mondo scientifico sia quello dell’industria ed i soggetti pubblici. I progressi raggiunti dalla cosiddetta viticoltura di precisione, applicabile ormai anche ad aziende di piccole dimensioni, consentono di valutare lo stato vegeto-produttivo nelle diverse parti di un vigneto e di adeguare le somministrazioni degli input energetici (concimi, acqua irrigua, prodotti antiparassitari, etc ) in funzione dei reali fabbisogni delle piante.
La retorica dei vini naturali
Ma la sfiducia nella scienza non è di certo una novità. Si evidenzia fin dagli anni Trenta dell’Ottocento (epoca del rifiuto romantico della scienza newtoniana), si accentua nel primo del Novecento fino ad arrivare all’antiscientismo e all’antimodernismo della fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Il mito del vino naturale sembra affascinare molti consumatori e anche qualche produttore, ma nasce da una errata concezione della realtà. Il vino, infatti, non è opera della natura, ma un prodotto della cultura.
Per procurarsi la materia prima adatta, l’uomo ha dovuto forzare la natura, o quantomeno pilotarla verso obiettivi che le erano estranei: bisogna far fermentare il mosto ottenuto, spremendo i grappoli, guidando la fermentazione e la successiva stabilizzazione biologica, evitando così quelle frequenti deviazioni nei processi biochimici che portano alla produzione di un vino con gravi alterazioni sensoriali, e in ultima istanza all’aceto.
Il messaggio dei vini naturali resta però indeterminato e rischia di sfociare in una sorta di populismo che bolla come “non naturale” tutto ciò che viene prodotto con l’ausilio della scienza e della tecnologia. Diciamo che è la soluzione semplificata dei problemi complessi, tipica dei nostri giorni.
La contrapposizione tra vino naturale e vino “artificiale”
D’altro canto, c’è la posizione opposta dei puristi, di coloro che restano fedeli a un modo classico di intendere i valori organolettici del vino e del territorio e hanno la tendenza a considerare i vini naturali come prodotti di serie B, difficilmente in grado di raggiungere eccellenza e costanza qualitative.
La globalizzazione influenza non solo gli avvenimenti su scala mondiale, ma anche la nostra vita quotidiana, il nostro rapporto con il vino.
Non c’è bisogno di soffermarci su tutto l’elenco degli additivi o delle operazioni che vengono applicate alla produzione del vino quali l’osmosi inversa, la criomacerazione, l’uso di lieviti selezionati, tannini, trucioli, attivatori per la fermentazione, scorze di lieviti, etc.
Tutti innocui per la salute e consentiti dalle normative vigenti, ma che alla fine fanno diventare i vini tutti uguali, a prescindere dal vitigno e dal terroir. Non trascurabile a questo proposito anche il ruolo della comunicazione, fortemente condizionata dal “pensiero unico” di precisi modelli sensoriali dei vini “perfetti”.
Il contraltare è il pensiero magico
La reazione a questi vini si è manifestata con forme di vinificazione e di viticoltura alternative, quali il ritorno ai vitigni autoctoni, la vinificazione in anfora ed appunto la viticoltura biodinamica o naturale. Alla base di questa scelta anche la sensazione di rischio che pervade la vita di tutti i giorni e nella percezione del rischio interviene anche il nostro rapporto con la scienza e con la tecnologia.
Più la scienza penetra nella nostra vita e meno accettate sono le scoperte degli scienziati soprattutto se queste intervengono nella produzione di alimenti. Il rischio alimentare che aleggia costantemente sopra le nostre teste contribuisce a creare nuove identità sociali. I consumatori attivano un meccanismo che gli antropologi chiamano “pensiero magico” che si fonda sull’accettazione di qualità simboliche di tutto ciò che entra a contatto con il cibo. Produttori, tecniche di produzione, luoghi di produzione, interpretazioni ideologiche sono trasmessi per “contaminazione simbolica” agli alimenti stessi.
Il pensiero magico, quel particolare modo di ragionare ed agire e di valutare le cose, che si presume sia un retaggio dei popoli primitivi ma che sotto mutate spoglie, rivela la sua esistenza anche nella nostra società dove le componenti estetiche prevalgono su quelle materiali, in cui la simulazione tende ad essere più appagante dell’esperienza della realtà, in cui il verosimile prevale sul vero. Si vuol far credere che si possa costruire una prospettiva economica alla nostra viticoltura sulla nostalgia e sull’esoterismo. C’è spazio per tutti, anche per i cantastorie. Purché le storie non siano favole.