C’è chi smetterà di farli e chi invece ci crede ancora, chi per venderli fa leva sull’enoturismo e chi sul packaging. Ma su una cosa sono tutti d’accordo: produrli è un puro atto di eroismo. I vini dolci sono considerati da sempre i vini delle feste. Ormai da tempo, però le bollicine li hanno esautorati, conquistando il monopolio di fatto delle ricorrenze, soprattutto a Natale e Capodanno. Muffati, passiti e vendemmie tardive conoscono un rapido declino: persino gli enti di ricerca economici hanno ormai rinunciato a monitorarli. Le bottiglie prodotte sono sempre di meno. Le vendite incidono poco o nulla sui bilanci delle aziende.
In definitiva, la loro produzione è diventata un atto di eroismo e la minaccia di estinzione è quasi realtà. Un vero peccato, considerato che l’Italia è uno scrigno inesauribile di questi prodotti tradizionali. Purtroppo, però, per il portafoglio delle cantine questa tipologia serve poco e, sempre più spesso, rappresenta un fattore di perdita economica.
Hofstatter dice basta al passito
Ne è convinto, per esempio, Martin Foradori Hofstätter, titolare della cantina omonima nonché vicepresidente del Consorzio di tutela dei vini dell’Alto Adige, che ha fatto una scelta secca: non produrrà più il suo passito da Gewürztraminer.
A parte qualche eccezione (vedi il Moscato Rosa) il fenomeno dei passiti altoatesini risale all’inizio degli ’90: «Qualche fuoco di paglia, avvantaggiato dall’exploit del Gewürztraminer» minimizza Hofstätter «Alcune aziende, compresa la nostra, hanno fatto il vino dolce per completare il portafoglio. Ora però» annuncia «ho deciso di non produrlo più perché diventare matti per quattro bottiglie in croce di un prodotto che non si vende diventa più un problema che un’opportunità: nessun ritorno economico, di contro creano solo problemi logistici. Sarò molto teutonico: stare lì a spendere soldi, tempo e nervi per la comunicazione non ha molto senso. Non lo vedo neanche come aperitivo: per quel momento lasciamo alla gente il Prosecco e il Trento Doc». Insomma, storia chiusa.
«Là dove non c’è tradizione» conclude il produttore «il vino dolce è finito, rischia solo di essere un’espressione dell’ego dell’enologo. Rimarranno i sauternes, i moscati, il vin santo, cioè i vini dolci che hanno una storicità. Ma tutto il resto lasciamolo perdere».
I Moscati del sud-est siciliano arrancano
Ma la crisi colpisce anche i vini dolci dei territori tradizionalmente vocati come la Sicilia. Lo spiegano i dati aggregati del venduto nel 2023 per le Doc del Val di Noto. La denominazione del Moscato di Siracusa, per esempio, vanta una produzione di appena 4600 bottiglie (da 0,50l). La doc Moscato di Noto arriva a circa 8mila bottiglie da 0,50 e 1200 da 37,5.
«Tra Siracusa e Noto, negli ultimi cinque anni abbiamo registrato un calo pauroso». A parlare è Massimo Padova, presidente della Strada del Vino del Val di Noto e titolare della cantina Riofavara a Ispica (Ragusa). «È un prodotto legato alle feste natalizie. Difficile che venga consumato al ristorante: i commensali lo accettano solo quando è offerto, ma non c’è l’idea di bere un altro vino a fine pasto», spiega Padova. E sulle strategie promozionali aggiunge: «Tutte valide ma il problema principale è la mancanza di attenzione da parte dei giovani. Io lo vendo a un’azienda di panettoni che poi lo usa per l’impasto del panettone. In prospettiva si può pensare all’ampollina per fare la bagna. Ma non è un uso di massa».
Vin Santo del Trentino
Ma c’è chi va in controtendenza. A Pergolese di Lasino, a metà strada tra Trento e Riva del Garda, nelle campagne della Valle dei Laghi, Marco Pisoni, titolare della cantina omonima, ha appena realizzato un nuovo appassitoio per la realizzazione del Vino Santo, il vino dolce trentino realizzato da uve Nosiola con un procedimento lunghissimo (e costoso): almeno 5-6 mesi di appassimento, 2-3 anni di fermentazione, 3-5 anni di acciaio e altrettanti in legno, per un totale di 10-15 anni in cantina.
Insieme con altri colleghi, Pisoni fa parte dell’Associazione Vignaioli del Vino Santo, attiva da più di vent’anni. Come spiega il presidente Alessandro Poli (dell’azienda agricola Francesco Poli), «l’associazione coordina il lavoro di sei diversi produttori e si occupa di valorizzare questo vino con eventi e degustazioni».
I numeri restano, tuttavia, modesti: la produzione annua di Vino Santo si ferma a 3mila bottiglie, di cui il 90% del venduto è diretto all’estero. Ma c’è di più. I sei produttori usano una bottiglia comune da 10 anni: tipologia renana, disegnata ad hoc con il collo sottile, la scritta “vino santo”, il logo. E poi lo stesso prezzo per tutti. Esiste perfino una confezione comune di sei bottiglie - una per cantina - che ciascuno degli associati vende nel proprio wineshop ai turisti.
Il Vin Santo e l'enoturismo
Se ci si sposta in Toscana, l’attaccamento diventa ancora più evidente: guai a toccare il Vin Santo. «Il Vin Santo del Chianti Classico ha numeri bassi ma è sempre stato così. È un vino di nicchia che va. Certo, non è mai stata una tipologia su cui generare fatturato, ma rimane una presenza indiscutibile nelle fattorie del territorio». A parlare è Carlotta Gori, direttrice del Consorzio del Chianti Classico, che rifiuta decisamente l’idea di un vino in crisi. «Il Vin Santo riscuote sempre grande attenzione: sul versante enoturistico rappresenta un ottimo ambasciatore del territorio. Quasi sempre ogni azienda ha il suo, ogni contadino lo faceva in casa, era il vino per l’ospite, il vino dell’accoglienza. Ancora oggi il vin santo è rappresentativo dell’azienda: c’è l’orgoglio di far vedere la stanza dove si fa il vin santo, un elemento aggiuntivo che genera la curiosità del turista», spiega Gori.
Sul fronte dell’abbinamento andrebbe superato l’ormai noioso e stucchevole connubio con i cantuccini. «Ottimo con i formaggi stagionati, ma l’Occhio di pernice (che è all’80% Sangiovese) si sposa bene pure con il foie gras. In generale, è un vino da degustazione di grandissimo pregio che può essere sganciato dal dessert, specie quando è molto invecchiato», conclude Gori.
Itinerari turistici ad hoc
Donatella Cinelli Colombini (titolare di Fattoria Trequanda e Casato Prime Donne, ma soprattutto imprenditrice visionaria che ha inventato il Movimento del turismo del vino) con il gruppo delle Donne del vino della Toscana ha messo in piedi un’iniziativa per confrontarsi sul futuro dei vini dolci toscani - Vin Santo, Moscadello di Montalcino e Aleatico - rivolta anche ai rappresentanti dell’amministrazione regionale dell’Agricoltura.
«Le cose da fare non sono né troppo costose né troppo difficili», afferma con convinzione Cinelli Colombini. In primo luogo, racconta, «è evidente che tutti i produttori vendono i vini dolci ai turisti dopo che hanno visto i luoghi di produzione. Basti pensare alle modalità di raccolta dei grappoli o ai caratelli: una miscela di storicità collettiva e di storytelling dell’azienda. Ecco perché servirebbe fare un percorso del Vin Santo a livello regionale».
C’è anche un ruolo importante per il packaging: «molti produttori propongono una confezione troppo âgé che allontana il consumatore giovane. Si tratta in genere di un vino da regalo: quindi servirebbe un packaging più gioviale e più lussuoso. Anche il basso costo è un errore: molti hanno paura ad alzare i prezzi perché temono di entrare in competizione con i vini liquorosi che vanno nei supermercati a basso costo. Ma è una scelta controproducente».
Tra le idee emerse: la creazione di un itinerario enoturistico ad hoc, la presenza promozionale alle fiere dolciarie, l’uso come regalo, magari in abbinamento con un dolce. In ogni caso, il messaggio che arriva dalle donne del vino della Toscana è chiaro: «È un peccato pensare che una tradizione di 600 anni possa sparire per essere sostituita da vini da quattro soldi. Dovremmo difendere una marginalità, tutelare l’identità locale. A volte le cose sono sotto il nostro naso basta un po’ di buona volontà», conclude Cinelli Colombini.