Siamo appena seduti in un tavolo con tovaglia bianca in un ristorante con qualche pretesa. Arriva il maître con una corposa carta dei vini e cala la fatidica domanda: chi sceglie il vino? In genere a questo punto salta fuori il saputo di turno, che ne sa più degli altri, sceglie per tutti, degusta all’arrivo con fare saputo e gli altri seguono: se lo dice lui che va bene sarà così. Perché lui ha studiato e sa distinguere un brut da un extra dry, sa cos’è un Blanc de Blanc e un Pas dosé e vattelapesca. Se la stessa scena l’avessero vista i nostri nonni calati con una macchina del tempo da quell’epoca non poi così lontana quando il vino era rosso o bianco, buono o cattivo, e stop ci avrebbero presi per matti. Eppure il vino è quella filiera, ricca ed evoluta, cui tutte le altre si ispirano proprio perché è riuscita a fare il grande “salto”, da prodotto indifferenziato a eccellenza da degustare con una certa altezzosità. Ma tra storytelling e origini, cru e terroir e francesismi vari non è che alla fine quello che era il compagno di mille pasti conviviali e bevute in compagnia ce lo siamo un po’ perso? È la prima questione che emerge da una chiacchiera con Lorenzo Cesconi presidente Fivi, Federazione italiana vignaioli indipendenti.
Insomma, avete esagerato?
Per trent’anni il vino ha costituito una sorta di nobiltà e un valore importante che ha permesso alla viticultura di prosperare nel nostro Paese. Ora troppo spesso sento persone che mi dicono che il vino a loro piace ma non se ne intendono a sufficienza, lo bevono ma non lo commentano perché non sono fiduciose delle loro sensazioni, perché non hanno studiato e non hanno una preparazione. Ecco, questo è sintomo che sì, abbiamo un po’ esagerato nella comunicazione e sarebbe bello che il vino ritornasse sulle tavole di tutti in maniera semplice. Perché il distinguere una cosa buona è prerogativa di tutti e non di chi ha studiato, è dentro l’essere umano sapere scegliere ciò che gli piace e ciò che non gli piace e questo deve essere sufficiente per bere del buon vino.
Sarebbe bello, insomma, che il vino tornasse a essere un prodotto quotidiano da consumare in compagnia senza tanti patemi.
Certo, e in abbinamento alle nostre pietanze e ai nostri piatti tipici, e qui entra in campo la valorizzazione di tutto il nostro patrimonio varietale Italiano che è così importante. Per fare un paragone con una filiera affine, l’olio non ha avuto la stessa fortuna a livello comunicativo ma il punto di incontro possiamo trovarlo a metà tra mondo del vino e mondo dell’olio. Se l’olio ha bisogno di una valorizzazione, il vino ha bisogno di tornare sulle tavole degli italiani.
Occorre (ri)democratizzare il vino insomma. Ma esiste un prezzo minimo per un buon vino?
Il vino ha vinto la guerra del prezzo, ma dovessi un prezzo minimo per un buon vino non direi che non c’è, ci sono vini eccellenti di buona costruzione, fatti bene che costano davvero poco. Per saper scegliere con la quantità di etichette che ci sono, in effetti per questo forse sì serve un po’ di conoscenza e di studio.
Fivi rappresenta i piccoli produttori indipendenti, parlate di biodiversità e pratiche agricole corrette. Come vi distinguete dal greenwashing imperante?
Il buon produttore non ha bisogno di washing se rispetta il sistema in cui lavora, e mi riferisco alla terra e all’ecosistema agricolo. C’è modo di produrre in modo sostenibile senza ricorrere a degli espedienti che ti fanno sbilanciare il consumo di CO2. L’attenzione a una produzione sostenibile, per i piccoli produttori che noi rappresentiamo, non è più una scelta, è un percorso quasi obbligato. Forse a livello economico il vantaggio è difficile da intravedere, anche se c’è una tendenza sui mercati internazionali a prediligere una produzione sostenibile e biologica. Però se vogliamo fare una produzione di qualità bisogna avere rispetto del sistema in cui lavoriamo e noi piccoli produttori non possiamo prescindere dalla qualità, altrimenti non possiamo che perdere il confronto con un’industria che a livello di economia di scala e produttiva ha molte più armi di noi.
L’agricoltura intensiva fa danni all’ambiente, si appoggia spesso sulla creazione di ibridi che però non sono pronti ad affrontare l’imprevedibilità causata dalla crisi climatica.
Bisogna vedere se gli ibridi sono ideati per produrre di più o per essere più resilienti nei confronti di un clima bizzarro, perché questo è il grande tema. Sicuramente la viticultura in questo momento sta soffrendo i cambiamenti climatici perché negli anni sulla vite è stato fatto un grande percorso di selezione ma prescindendo dalla resistenza: abbiamo selezionato il frutto bello, buono, con una grande qualità gustativa, ma non abbiamo elementi forti dal punto di vista genetico. Ora si ripone grande fiducia nelle TEA, tecniche di evoluzione assistita: sono modificazioni puntuali per introdurre resistenze a una determinata patologia, non penso che sia la panacea di tutti i mali, andare avanti con la ricerca è giusto ma bisogna mantenere l’occhio alla ricerca tradizionale che prescinde dalla modificazione genetica anche se piccola e puntuale. Penso a un percorso di ricerca e selezione come si faceva una volta, che ponga come primo fattore di scelta non più solo l’aspetto qualitativo ma anche la resistenza e l’adattamento al clima. Si possono avere più individui all’interno dello stesso vigneto che si diversificano e fanno comunque ricchezza a livello genetico, al giorno d’oggi ci vuole molta attenzione sia su come si piantano i vigneti in maniera meno intensiva ma anche su cosa si va a piantare.
Questa annata come sta andando?
Rappresentiamo soci che vivono esperienze diametralmente opposte con regioni in estrema siccità e altre con troppo acqua. Con la siccità si possono fare i conti, l’eccesso di pioggia è davvero difficile da gestire, a marzo in Trentino era piovuta la pioggia dell’anno scorso fino a fine novembre, grandi quantità d’acqua causano il proliferare delle malattie della vite una difficoltà nell’eseguire i lavori a verde e a mantenere lontane le crittogame. Ma soprattutto, non si può fare pianificazione perché non sai cosa puoi aspettarti, bisogna essere pronti a tutto, è difficile interpretare il meteo ma bisogna provarci, è questa la prossima grande sfida.
Per fortuna che si dice ci sia il ritorno dei giovani nelle campagne: ci penseranno loro a raccogliere le sfide?
Ma no, è una grande bugia, tanti giovani si dicono appassionati di agricoltura ma quando poi la sperimentano capiscono che il lavoro e duro e il risultato non è certo e spesso fanno retromarcia. C’è in giro un’idea di agricoltura per cui si va a spasso con il trattore per la natura e si lavora si vuole, ma poi scoprono che non è così.
Un po’ come chi vuole fare il cuoco dopo aver visto MasterChef.
Esatto, poi scopri che è un lavoro massacrante. Al giorno d’oggi non c’è niente di facile, le difficoltà sono aumentate, la competizione è altissima. Senza passione non si fa nessuna attività.