Il vino è un prodotto agricolo privilegiato. Lo è per il reddito che genera, per l’indotto, per la sua valenza culturale. A differenza di un formaggio, di un pomodoro o di un radicchio, arriva a tavola vestito. La bottiglia non è solo un contenitore, ma l’abito che dà il via alla degustazione. Già dalla sua forma, dal colore dell’etichetta, il font, il tappo di sughero o a vite, l’eventuale ceralacca, iniziamo a trarre le nostre prime informazioni. Poi arriva il carico dalla denominazione, l’annata e il produttore. E da un’ultima e non secondaria leva nella formazione dell’aspettativa: il prezzo. A questo punto siamo già fregati, la nostra oggettività critica è già sotto pressione, se non compromessa. C’è chi si riesce a scostare da questa prima fase, chi meno, chi nemmeno ci prova. E sono in tanti.
I pregiudizi durante la degustazione
I preconcetti ce li portiamo dietro, incredibilmente, anche quando si degusta alla cieca. Se in una batteria è presente un produttore famoso e di culto, si tenderà a cercarlo nel bicchiere, anche solo per dimostrare di essere ancora la vecchia volpe di un tempo. In caso di voto non all’altezza il primo sospetto sarà su una bottiglia storta – che sfortuna questi tappi – magari la luna calante o il giorno fiore. Quindi si procede a un eventuale riassaggio. Abbiamo visto degustatori massacrare al buio il vino del cuore, produttori stroncare il loro rosso di punta, enologi prendere fischi per fiaschi. Per poi tornare, pochi minuti dopo, alle convinzioni di sempre. Lo abbiamo fatto anche noi. Quanto è difficile mettere in discussione i propri gusti, quanto è complesso muovere critiche ai mostri sacri, anche davanti a versioni non all’altezza delle aspettative. A memoria mettiamo in fila: Sassicaia ‘14, Cerasuolo ‘18 di Valentini, Krug ’03, Les Hautes Chevres ’15 di Laval, Barolo Monprivato ‘16 di Mascarello, Pergole Torte ’16, Masseto ’09, giusto per fare qualche nome. In diverse presentazioni guidate i vini sembrano descritti per quello che rappresentano e non per ciò che racconta il bicchiere.
Degustiamo, sì, ma a bocce ferme. È come se la maggior parte dei commenti e delle analisi fossero mossi a bottiglie chiuse, intonse. Nel mondo naturale l’eco è ancora più potente, parabole gustative anche improponibili sono di frequente giustificate in virtù dell’etichetta, che segna un’appartenenza politica. Le certezze sono più forti dei dubbi, un vino di Gaja non può essere mai più interessante di un rosso di Rinaldi. Ci sono posizioni da rispettare. Siamo tutti bevitori di etichette, fino al primo bacio e al secondo bicchiere di vino.