Riccardo Binda è il nuovo direttore del Consorzio dell’Oltrepò Pavese: lunedì 9 settembre ci sarà l’insediamento ufficiale. Il commiato da Bolgheri – dove è rimasto alla direzione del Consorzio per quasi undici anni – è stato in grande stile, nella scenografica cena dei mille sul viale dei Cipressi, ma adesso una nuova sfida lo attende. Una sfida che per lui, classe 1986, è un ritorno a casa (Binda è originario di Voghera), ma che non si annuncia per nulla facile, visto che, due mesi fa, cinque imbottigliatori della denominazione hanno rassegnato le loro dimissioni dal consiglio di amministrazione in dissenso con le scelte della nuova presidente Francesca Seralvo, tra cui proprio quella di nominare un nuovo direttore al posto di Carlo Veronese. Non esattamente un benvenuto per Binda che, in questa intervista esclusiva al Gambero Rosso, racconta i suoi progetti per l’Oltrepò Pavese.
Prima di tutto congratulazioni per il nuovo incarico. È consapevole della sfida che l’attende? Come mai la scelta dell’Oltrepò Pavese?
È prima di tutto una scelta dettata dal cuore. Dopo tanti anni di esperienza lontano da casa, ho deciso di mettermi al servizio del mio territorio per farlo arrivare il più in alto possibile: lì dove meriterebbe.
Che denominazione lascia a Bolgheri?
In questi undici anni molte cose sono cambiate. Si pensi solo che quando arrivai non solo non c’era l’erga omnes, ma nemmeno un consorzio ufficialmente riconosciuto. Tant’è che i produttori dentro all’ente di tutela sono passati da 37 a 74. Insomma, il Consorzio andava sviluppato: Bolgheri era una terra di grandi aziende ed etichette, ma meno conosciuta come denominazione. Oggi è un brand affermato in tutto il mondo.
Come appare, invece, in questo momento l’Oltrepò Pavese visto da fuori? Ci sono criticità su cui intervenire?
Da osservatore esterno, direi che l’Oltrepò ha sempre peccato di un’assenza di focus a livello di denominazione. E questo ha inciso molto in questi ultimi vent'anni. Difficilmente, infatti, il territorio viene associato ad una tipologia di vino, visto che si fa un po’ di tutto.
Per il futuro, quindi, sarà necessario fare delle scelte precise. Su quale tipologia puntare per il rilancio?
Di questo discuteremo collegialmente, ma chiaramente non si può non considerare che l’Oltrepò ha una storia importante legata al pinot nero (il 30 settembre ci sarà la quarta edizione dell'evento Oltrepò – Terra di Pinot Nero, che coinciderà di fatto con la presentazione ufficiale di Binda, ndr). Da qui il ruolo fondamentale nel Metodo classico per il futuro. I margini di crescita rispetto all’attuale produzione sono enormi. Ma questo è il mio parere: le scelte andranno prese tutti assieme.
Altre storture da correggere?
L’altro grande problema è che in questi ultimi venti anni il focus è stato completamente spostato sul prodotto finale, lasciando a sé stessa la fase produttiva legata alla vigna e alla cantina. Bisognerebbe, invece valorizzare tutte e tre le fasi senza sbilanciamenti. Nessuno ha nulla contro gli imbottigliatori – che rimangono una parte fondamentale della filiera – ma non bisogna tralasciare le altre componenti. Bisognerà lavorare in modo sinergico.
Non sarà facile, considerato che cinque imbottigliatori hanno già lasciato il Cda in dissenso con la nuova presidenza…
In quasi tutti i territori ci sono imbottigliatori, cantine sociali e produttori. Si tratta solo di trovare un equilibrio.
A proposito di rappresentatività nei consorzi: ha ancora senso lasciare le decisioni importanti in mano a chi produce di più, seguendo il mero principio delle quantità e non del valore?
La normativa è nazionale. Il principio che segue – più produci più voti – non è scriteriato, ma, poi, chiaramente va declinato nei singoli territori. Ad ogni modo, ci atteniamo alle leggi. Se poi verremo interpellati diremo la nostra.
C’è, però, da dire che senza il cambio di passo delle cooperative - che, per dirlo con la presidente Seralvo per la prima volta si sono girate verso il mondo produttivo - le cose in Oltrepò non sarebbero mai cambiate…
L’atteggiamento delle cantine sociali è stato determinante per aprire questa nuova fase dell’Oltrepò.
Una nuova fase che però ha portato sul piede di guerra gli imbottigliatori che, tra le altre cose, non hanno mandato giù la nomina di un nuovo direttore e la fine dell’era Veronese.
Non condividere la scelta di un nuovo direttore non è sbagliato, anzi è normale che siano dispiaciuti per l’addio a Veronese. Il valore di una persona va dimostrato nel tempo e con i fatti, quindi, personalmente non chiedo a nessuno dei consorziati di essere contenti oggi, ma spero apprezzino il mio operato tra due-tre anni.
In una recente intervista al Gambero Rosso, l’imbottigliatore Quirico Decordi ha usato parole molto dure, affermando che non si può cambiare una realtà come l’Oltrepò. Chi pensa di poterlo fare si sbaglia. È davvero così?
Non voglio fare filosofia spicciola, ma il cambiamento - scusate il gioco di parole - è un dato immutabile della realtà. Anche quando non si vuole cambiare, il cambiamento arriva. Possiamo scegliere di avere il controllo su di esso o lasciarci investire, ma non lo si può fermare.
Quindi l’Oltrepò Pavese ha bisogno di cambiare?
Ha bisogno di cambiare - come tutto il vino oggi – ma un po’ più degli altri per poter esprime al massimo le sue potenzialità.
Cosa risponde a chi dice che è passato da una gioielleria (Bolgheri) ad una bigiotteria (l’Oltrepò Pavese)?
Non la vedo così. Piuttosto direi che mi sono spostato da una gioielleria ad una miniera di diamanti. Magari diamanti ancora coperti dal carbone, ma che riporteremo alla luce.