Oggi Alto Adige è uno dei brand più forti del sistema vino italiano, una provincia che coltiva vigneti che non giungono ai 6000 ettari di estensione. Dolci pendii adagiati sulle colline che cingono la piana di Bolzano ma anche minuscoli appezzamenti letteralmente strappati alla montagna come in Valle Isarco. Non sempre è stato così però, basta tornare con la mente agli anni ’70 per avere un quadro completamente diverso, un territorio povero, dove la vigna spesso era coltivata per autoconsumo e i più lucidi imprenditori vendevano i vini all’estero, generalmente in botte. In questo quadro la cooperazione è sempre stata uno dei più grandi supporti all’attività agricola, un sistema che garantiva un minimo reddito ai contadini disseminati sul territorio che allora come oggi possedevano piccoli fazzoletti di terra. Oggi la prospettiva è diversa, e la cantina produttori di San Michele Appiano conquista il premio come Cantina Cooperativa dell'Anno nella guida Vini d'Italia 2021. Un premio che conferma la direzione intrapresa anni fa, e che continua a dare grandi soddisfazioni. Abbiamo incontrato del winemaker Hans Terzer per farci raccontare questo percorso, interrompendone le attività durante i giorni più caotici dell’anno, quelli che vedono le vie del paese riempirsi di soci che portano il loro raccolto in cantina.
Com’era la realtà delle cooperative quando hai iniziato la tua attività in Cantina?
Sono arrivato alla fine degli anni ’70 e la situazione era molto diversa da quella attuale. Più dell’ottanta percento della produzione era di vini rossi, in gran parte schiava, frutto di vigneti molto produttivi e spesso posizionati sul posto sbagliato.
Cosa vuol dire sul posto sbagliato?
Che per tradizione la schiava era coltivata praticamente ovunque, anche su vigne molto in alto dove maturava un po’ come voleva.
E chi erano gli acquirenti di quei vini?
Una parte veniva messa in bottiglia da 2 litri, ma la gran parte di quel vino era venduto sfuso nei mercati di riferimento dell’epoca, soprattutto Svizzera e Germania. Il prezzo era decisamente basso e in qualche modo costringeva i contadini a produzioni di grande quantità per portare a casa due lire.
Quali sono state le prime scelte qualitative?
All’inizio il mio lavoro si può dire che fosse quello di sistemare un po’ i vini che rasentavano il difetto per dare vita ad una produzione beverina e quanto possibile piacevole.
Nel 1982 per la prima volta ho convinto un gruppo di soci a ridurre le rese per ettaro e raccogliere l’uva a maturazione completa. Era il Pinot Bianco di Schulthauser, ancora oggi un’etichetta a cui sono particolarmente legato. In realtà quella diminuzione di resa oggi fa sorridere, ma per l’epoca era veramente spropositata.
E poi?
E poi abbiamo cominciato a far estirpare i vigneti posizionati sui posti sbagliati e sostituirli con varietà più indicate. Ovviamente errori ne abbiamo fatti ancora, sulla scia del successo del gewürztraminer ad esempio qualche volta siamo andati un po’ troppo in alto, ma oggi la gestione del territorio è sicuramente più ragionata e meno empirica.
Dicevi del pinot bianco, all’epoca l’uva a bacca bianca più coltivata, ma le scelte successive quali sono state?
Credo di essere stato il primo, o perlomeno uno dei primi, a separare il pinot bianco dallo chardonnay e dedicare un vino al vitigno borgognone …. e poi le prime vinificazioni e maturazioni in barrique. Ancora oggi non passa vendemmia che non veda in cantiere qualche sperimentazione o progetto nuovo.
Ci sono state difficoltà con i soci?
Sì, enormi. Immagino che i vecchi contadini vedessero quel giovanotto appena arrivato che imponeva loro di buttare in terra l’uva e che non ne capissero il perché. Bisogna anche capire che a differenza nostra, loro avevano conosciuto la guerra, la fame e buttare in terra ciò che la natura dona doveva sembrare sacrilego.
E i mercati invece, hanno riconosciuto subito il cambio di passo delle vostre produzioni?
Neanche quello è stato facile, anche perché noi eravamo convinti di produrre vini migliori, ma il mondo proprio non se ne era accorto. Bussavamo alle porte dei ristoranti importanti ma spesso venivamo snobbati.
E quando allora avete preso coscienza del vostro potenziale?
Pochi anni dopo, se non ricordo male nel 1986, è nato il progetto Sanct Valentin e per la prima volta ho cominciato a presentare non solo con orgoglio i vini della Cantina, ma anche con la consapevolezza che potevamo confrontarci a viso aperto con qualsiasi denominazione. Se oggi riusciamo a produrre vini come l’Appius o The Wine Collection siamo consapevoli che il cammino è cominciato proprio con il primo vigneto di Schulthauser e con i brontolii dei contadini.
C’è un vino in particolare che ha rappresentato questo momento di discontinuità con il passato?
Ho sempre assaggiato molto nella mia vita, e anche negli anni più complicati ho provato stima e ispirazione nei vini di alcuni produttori, per citarne solo un paio direi Sebastian Stocker fra i miei vicini e Mario Schiopetto guardando un po’ più in là. Se penso invece alla produzione della Cantina di San Michele Appiano direi proprio il Sauvignon Sanct Valentin 1986. Purtroppo non ne ho più una bottiglia, però ricordo che in quel momento ho capito che la strada ormai era segnata.
Cantina Produttori San Michele Appiano Soc. Agr. Coop - Appiano sulla Strada del Vino (BZ) - via Circonvallazione, 17-19 - 0471 664466 - https://www.stmichael.it
a cura di Nicola Frasson
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